Mese: Maggio 2021 Pagina 1 di 2

Aloy: ecocritica, narratologia e ‘guanciotte’

La seguente analisi scaturisce dai recenti discorsi sui video di Horizon Forbidden West e sulla caratterizzazione di Aloy.

Come in tanti altri casi, è impossibile non notare una polarizzazione molto forte, da “o bianco o nero”, in cui però nessuna delle due parti sembra cogliere effettivamente il punto, il nocciolo.

In buona sostanza, ciò avviene perché simili dibattiti si verificano sui social, in cui la brevità di scrittura e fruizione dei post è inevitabilmente contraria all’approfondimento. E gli articoli sulla questione, in diversi casi a loro volta sbrigativi, si limitano a fotografare un dibattito più che a vedere cosa ci sia al di sotto.

Tutta la questione è nata dalle ‘guanciotte’ che Aloy mostra nel trailer di questo videogioco, che appaiono un pochino più piene rispetto al suo modello in Horizon Zero Dawn.

Questa cosa, da un lato, ha istantaneamente prodotto un gran numero di meme e sfottò. E questi materiali e commenti, come risposta, hanno generato levate di scudi sull’importanza di rappresentazioni femminili più credibili e meno stereotipate, al di fuori della ‘bambolona’ ipersessualizzata.

Ora, metto subito in chiaro che quest’ultimo punto è importante e mi trova concorde, ma se ci si ferma qui si sta solo ribadendo ciò che è autoevidente. Sarebbe semmai molto più utile capire se, e quali, siano le caratteristiche precipue di Aloy che generano certe risposte, da entrambe le parti.

A margine, vorrei anche aggiungere che la tesi della Aloy ‘cicciottella’ (che poi sarebbe difficile definirla tale, ma diamolo per buono) come antidoto alla sessualizzazione è una posizione piuttosto innocente. Perché sarebbe un invito a nozze per coloro che seguono un numero di feticismi piuttosto ampio e differenziato. Mi limito a dire che praticamente qualsiasi personaggio femminile (e, sempre più, anche quelli maschili) dei videogiochi già viene ‘inciccito’ in numerose fanart. A partire da Aloy stessa.

Ma, come detto, questa è la buccia della questione. Si trova già abbastanza gente pronta a scannarsi su questa cosa e fin quando ci si ferma qui è solo un dibattito di “mi piace” vs “non mi piace”. Magari un po’ più condito con quelle che rimangono però pur sempre opinioni dettate da gusti personali.

Gusti giustissimi, sia chiaro, ma non sono una base solida per un effettivo ragionamento. Un ragionamento che deve servire non tanto a eleggere un vincitore del dibattito (spoiler: non ci sono vincitori né vinti), ma capire perché quest’ultimo si è innescato.

Per fare ciò, è doveroso partire da quel che è stata Aloy in Horizon Zero Dawn.

Due precisazioni forse ovvie, prima di cominciare. La prima è che ci saranno spoiler. La seconda è che non si sta tenendo conto qui di eventuali questioni ‘morali’ legate al dibattito. Non perché non siano rilevanti, ma perché in molti altri contesti si è parlato solo di quello.

Aloy: ecocritica, narratologia e guanciotte

Dubbi ecocritici, briganti massacrati e signori del male

Aloy è stata in più occasioni (per esempio Forni, 2017; Parenzi Vieira e Mota, 2018) identificata come un modello positivo di superamento dei tradizionali ruoli di genere.

Da questo punto di vista è sicuramente un personaggio che può essere definito come motivante, fonte di ispirazione, un modello da seguire.

D’altra parte, Aloy è anche inserita in un videogioco che – pur essendo certamente ricco di pregi – presenta alcuni elementi narrativi che aprono a qualche dubbio in più. Per cui, se ci spostiamo su un altro piano, al di fuori della rappresentazione di genere positiva e propositiva, bisogna fare dei discorsi ulteriori.

C’è un primo aspetto, molto importante, che riguarda molto più la struttura di gioco e la visione del mondo, che lo specifico personaggio di Aloy. Per cui questo aspetto finisce comunque per riguardarla, ma solo in qualità di protagonista del videogioco.

Coloro che si sono approcciati a Horizon Zero Dawn con un approccio ecocritico o environmentalista (per esempio Woolbright, 2018; Condis, 2020; Nae, 2020) hanno, in primo luogo, sottolineato alcune discrepanze fra il tema centrale della narrazione e le caratteristiche portanti del gameplay.

Il videogioco, nella sua essenza, parla di un conflitto tra natura e tecnologia. E considerando il suo legame con il passato (la piaga dei robot di Faro, collocata in un futuro poco successivo al nostro presente) può anche essere facilmente identificato come una critica al capitalismo e, se si vuole, anche alla corsa agli armamenti.

Eppure quel che Horizon Zero Dawn ci propone è proprio un approccio capitalistico e una corsa agli armamenti. Bisogna accumulare risorse, depauperando idealmente il territorio, e bisogna equipaggiarsi al meglio per sconfiggere i propri avversari. Avversari che non sono solo gli iconici robottoni, ma anche un gran numero di nemici umani. Se ci si ferma a riflettere, può suonare un po’ curioso che la paladina dell’umanità abbia stroncato qualche centinaio di vite, lungo il suo viaggio. Certo, in questi casi si attiva una dicotomia fra la dimensione della “città” e quella della “wilderness”: i briganti, i traditori ecc. sono idealmente inseriti in quest’ultima, per cui rientrano tra coloro che sono eliminabili (ho accennato alla cosa in Toniolo, 2020).

Non è che questa discrepanza sia presente solo in Horizon Zero Dawn, sia chiaro. Un gran numero di GDR più o meno open world presentano grosso modo queste problematiche. Qui sono semplicemente un po’ più evidenti per via della proposta ecologica di fondo, che – se analizzata più nel dettaglio – va a porre anche qualche domanda su quale sia l’effettivo contrasto in atto.

La natura in Horizon Zero Dawn esiste perché lo ha voluto un software. Aloy stessa esiste perché lo ha voluto un software. Il contrasto di fondo non è quindi tra natura e tecnologia, o tra natura e cultura, o tra due visioni dello sfruttamento delle risorse. È il contrasto manicheo fra due programmi che incarnano un principio di creazione e uno di distruzione.

Il videogioco semina anche degli spunti di maggiore interesse, a tal proposito, ma non va poi a coglierne i frutti. Viene detto infatti che ADE, il programma legato alla distruzione, era stato ideato col compito di bloccare la terraformazione di GAIA, se essa non fosse stata eseguita correttamente. Un simile dettaglio avrebbe facilmente aperto la strada a una conflittualità per più stratificata e anche più vicina a quel messaggio ecocritico che, in modo incerto, Horizon Zero Dawn sembra pur voler veicolare. Se, per esempio, ADE avesse voluto annientare l’umanità dopo essersi reso conto che essa stava ripercorrendo lo stesso sentiero distruttivo del passato. Invece viene semplicemente reso un software impazzito, relegato nella posizione da tradizionale signore del male che deve distruggere tutto senza un perché.

L’altra soluzione non è che sarebbe stata la più interessante di tutte, ma almeno sarebbe stata in linea con l’ambientalismo identificato in Horizon Zero Dawn, che è di matrice piuttosto tradizionale. Ovvero con una natura minacciata dagli esseri umani (in questo caso da una tecnologia creata dagli esseri umani), strutturata quindi in termini di negazione. Sarebbe ovviamente ben più apprezzabile e originale un approccio post-ambientalista, attivo e propositivo, come suggeriva Peter Berg (2001). Ma sarebbe comunque stato un elemento di complessificazione rispetto all’avversario ontologicamente malvagio.

Come detto sopra, Horizon Zero Dawn condivide simili aspetti con un gran numero di altri videogiochi, e non si tratta certo di ‘peccati mortali’ che rendono impossibile godersi il videogioco. Anzi, l’avventura mantiene numerosi tratti di piacevolezza.

Tuttavia, già questo fattore è una spia del fatto che anche certe scelte compiute su Aloy, che sono state dettate da ragioni di giocabilità, non siano necessariamente le migliori in termini assoluti.

Sono il factotum della città

Tanti protagonisti videoludici sono delle Mary Sue o dei Gary Stu. E in molti contesti la cosa è praticamente inevitabile.

Chi bazzica un po’ il mondo delle fanfiction probabilmente già sa cosa vogliano dire questi termini. Essi nascono nel mondo delle fanfiction, per l’appunto, ma sono stati poi applicati anche a un gran numero di personaggi letterari più o meno famosi. Attualmente, dire che un personaggio è una Mary Sue (se femmina) o un Gary Stu (se maschio), significa definirlo un personaggio fin troppo perfetto, prescelto ed eletto, al quale tutti si affidano per qualsiasi incarico rilevante, che è amato da tutti (solo i cattivi la/lo disprezzano e, in quanto cattivi, è chiaro che siano nel torto) e possiede caratteristiche o poteri praticamente unici.

Abbiamo anche diversi esempi famosi. Harry Potter, per esempio, è un perfetto Gary Stu. Oltre a essere l’eletto, il prescelto, l’unico e l’inimitabile, ogni volta che si trova in difficoltà c’è sempre un qualcosa che risolve miracolosamente la situazione. Silente che regala a casaccio punti a Grifondoro è divenuto un meme, ma in realtà è proprio una spia molto evidente di questa cosa.

Proprio a proposito dell’esempio fatto con Harry Potter riporto un parere di Chiara “Gamberetta” che è molto utile per portare avanti il discorso:

«Io ho l’impressione che un’ampia fascia di pubblico non voglia (più?) storie costruite in maniera “tradizionale” e basate sul conflitto, ma cerchi solo un personaggio con cui identificarsi e attraverso il quale vivere i propri sogni senza ostacoli. Niente di male. Il mio problema però è che trovo questo tipo di narrativa noiosa. È come giocare con un videogioco in cui non puoi mai morire: senza sfida che divertimento c’è?» (Gamberetta, 2011).

Bisogna capirsi un attimo. Nessun corso serio di narratologia e scrittura creativa vi direbbe che va bene scrivere una storia in cui il conflitto viene abbassato in continuazione, in cui c’è un personaggio che non compie alcun reale arco di trasformazione e che se la cava sempre perché è l’eletto o per l’intervento di un deus ex machina. Se si legge anche solo il corso base di Marco Carrara (2021) emerge con chiarezza quanto sia importante strutturare il tutto in un certo modo. Allo stesso modo se acquistate qualche buon manuale come quello di Dara Marks (2007) e John Truby (2009).

Ciò che emerge qui è che una storia può affascinare un gran numero di lettori e lettrici anche se la sua struttura non è ottimale, perché riesce a far leva su altre caratteristiche (di identificazione, di rispecchiamento dei propri bias, ecc.). Tuttavia, se quella stessa storia vincente fosse stata strutturata in un altro modo avrebbe ricevuto anche apprezzamenti più solidi e variegati.

Arriviamo ai videogiochi. Soprattutto se siamo davanti a prodotti più o meno ruolistici e più o meno open world, è molto facile che i protagonisti virino fortemente verso un certo grado di ‘marysuismo’. Questo perché, in quanto protagonisti di un videogioco di questo tipo, devono avere una fortissima agency. Deve essere lasciato loro il potere di intervenire sempre e comunque.

Pensiamo al comandante Shepard di Mass Effect. Il destino della galassia intera è letteralmente nelle sue mani. Le sue scelte possono essere aspramente criticate da altri personaggi, ma niente e nessuno gli toglieranno il suo potere decisionale, e sarà sempre lui/lei a occuparsi di tutto. E Shepard è già un personaggio con qualche elemento di complessificazione in più, per cui pensiamo anche solo a Link di The Legend of Zelda. È il prescelto, il campione delle dee, il migliore di tutti i guerrieri, l’unico che può maneggiare la Spada Suprema e tanto altro ancora. Ed è lui a poter e dover fare tutto.

Questo perché giocare nei panni dei comprimari non è altrettanto divertente. È quanto per esempio fecero, per ragioni di crossmedialità, nel videogioco Enter the Matrix (2003), il che generò diversi problemi (si veda Carr, 2008). Certo, ci sono delle eccezioni, così come non mancano storie corali in cui si ha una squadra di eroi ed eroine, ma alla fine anche lì emerge sempre un protagonista primario.

In questo senso, Aloy non è né “migliore” né “peggiore” di Link o di tanti altri personaggi che l’hanno preceduta e seguita. È una prescelta di prima categoria (la ‘reincarnazione’ della più grande scienziata di tutti i tempi), forse la più abile guerriera del suo mondo, tutti quanti pendono dalle sue labbra e nessuno mette mai in dubbio il suo operato.

È una reietta solo a parole, cosa che peraltro è una caratteristica di molte Mary Sue e Gary Stu. Viene presentata come una sorta di emarginata, l’ultima degli ultimi, ma questa cosa è solo dichiarata a parole e non ha alcun impatto narrativo, al di fuori di un paio di dialoghi. Nella sostanza, piuttosto, Aloy si comporta sempre allo stesso modo, sia che abbia davanti a sé l’ultimo dei mendicanti, sia che stia parlando con il sovrano del sole. Ha sempre lo stesso atteggiamento di forte determinazione che talvolta sfiora l’arroganza.

E, come detto, in un certo ‘senso’ deve avere questo potere di imporsi, di non essere mai contrastata, perché altrimenti sarebbe impossibile abbinarla alla modalità di gioco, con tutte le missioni primarie e secondarie che è chiamata a svolgere. Però è anche un personaggio senza un arco di trasformazione profondo e senza un difetto fatale. Ci sono alcuni (pochi) momenti in cui la storia sembrerebbe aprire degli spiragli in tal senso, come quando muore il suo padre adottivo. Sarebbe stato un possibile cambiamento per innescare un percorso di trasformazione interiore e di cambiamento, se fosse morto a causa del difetto fatale di Aloy. Ma dopo un breve filmato l’episodio viene lasciato alle spalle senza alcuna conseguenza, e Aloy rimane quella che era prima.

In questo è in buona compagnia, lo abbiamo già ricordato, ma è bene ricordarlo ulteriormente per evitare fraintendimenti (magari voluti e strumentali). Aloy e tanti altri protagonisti videoludici possono rimanere personaggi molto interessanti per altre ragioni, e nei quali è bello immedesimarsi, anche grazie a questa loro grande agency. Ciò non vuol dire però che siano grandi personaggi in senso assoluto.

Non è un caso che, per esempio, quando realizzano delle trasposizioni a fumetti di The Legend of Zelda, Link viene trasformato in un eroe molto più dubbioso, che talvolta pecca di arroganza e deve pertanto cambiare interiormente per essere in grado di trionfare, ecc. Perché di base il Link videoludico funzionerebbe molto poco. Ha bisogno di essere umanizzato, e ciò prevede che abbia un qualche difetto e un conflitto che non sia solo quello contro Ganondorf. Il Link videoludico è, da questo punto di vista, troppo statico e troppo perfetto, così come Aloy e così come lo sono tanti altri protagonisti e protagoniste.

Tengo anche a precisare che non si sta parlando del mero viaggio dell’eroe. Nella sua forma basilare è chiaro che sia ben applicabile anche a questi personaggi, con qualche minima attenzione per l’iperfetazione di prove intermedie che caratterizza questi videogiochi.

Il marmo e l’argilla

È tempo di tornare alla questione delle ‘guanciotte’ di Aloy. Se le polemiche sull’aspetto di Aloy sono più che pretestuose, le sue difese paiono fin troppo passionali e sovradimensionate. In alcuni casi si può immaginare che ci sia dietro del semplice baiting, con l’interesse per sfruttare la polemichetta del giorno. In altri casi potrebbe non essere così.Aloy è un personaggio ‘pietrificato’. È fatta per costituire un modello, è fatta per potersi identificare in lei. Ma non è assolutamente progettata per la trasformatività.

Anche i contenuti della fanbase su di lei sono molto più celebrativi che performativi. Tolto qualche contenuto erotico – immancabile, secondo i principi della regola 34 dell’internet – molti dei contenuti su di lei mostrano una Aloy che… è semplicemente la Aloy del videogioco. Questo deriva da due fattori. Il primo è quel che è stato trattato in precedenza: la Aloy videoludica è un personaggio un po’ ingessato, fin troppo perfetto. E ci sono anche ragioni comprensibili per cui sia così, ma ciò non cambia la sua natura. Per cui già ha un gradiente di rielaborazione performativa più basso di altri personaggi.

A questo si aggiungono le talvolta fin troppo pronte levate di scudi, contro chi mira a trasformare in qualche modo Aloy, anche ridicolizzandola come ‘cicciona’. Il punto della questione non riguarda la sciocchezza – ed è tale – di definire grassa Aloy perché ha delle guance un filo più tondeggianti. Il punto è che questo episodio aiuta a porre in evidenza la differenza di performatività di certi personaggi. Il che non vuol dire che alcuni siano ‘giusti’ e altri ‘sbagliati’, vuol dire che hanno un destino differente in quelle che sono le reazioni del fandom.

 Farò un parallelismo con i quattro lord di Resident Evil Village, perché me ne sono occupato di recente, con una particolare attenzione per Lady Dimitrescu. Loro quattro sono stati fin da subito trasformati e rielaborati in tantissimi modi. E non si tratta solo della feticizzazione di Alcina Dimitrescu, per quanto ovviamente presente. Su Tumblr sono divenuti – tutti e quattro – icone LGBTQIA+. Ci sono fumetti in cui sono una grande famiglia felice. Altri in cui litigano come in una sitcom. Alcuni nobilitanti e alcuni più che degradanti. E sono in tal senso ‘avvantaggiati’ sotto numerosi aspetti.

Non sono i protagonisti, tanto per cominciare, per cui non hanno addosso quel fardello dell’eroe. Non sono pensati per essere dei modelli. O meglio, possono comunque diventarlo, ma non è che questo sia uno dei punti di forza della loro caratterizzazione. Ci sono interessanti discussioni su come Alcina Dimitrescu sia un piccolo ma importante passo per la rappresentazione della figura materna nei videogiochi, ma – appunto – non è che questo sia il suo cavallo di battaglia. Sono, inoltre, composti da una serie di microunità tematiche, a volte anche discordanti fra loro, che gli consentono di prendere facilmente un gran numero di possibili bivi ideali.

Aloy è l’eroina guerriera. E poco altro. Portarla al di fuori di questo campo di azione appare in qualche modo una violazione della sua persona e di tutto ciò che rappresenta. Karl Heisenberg e Alcina Dimitrescu possono diventare tutto ciò che si vuole, sono una materia grezza malleabile.

Aloy la vediamo per ore e ore di gioco, ma grosso modo si comporta sempre allo stesso modo, ha pochissime esitazioni e pochissimi cambiamenti interiori. È integerrima, incrollabile, sempre focalizzata. Salvatore Moreau di Resident Evil Village lo vediamo per una manciata di minuti scarsi. Eppure il singolo dettaglio di lui, solo soletto, che guarda vecchie commedie romantiche e si deprime mentre sgranocchia formaggio apre una miriade di possibilità sul suo personaggio.

In questo è forse il personaggio più letterario fra i quattro lord. Perché tanti memorabili personaggi della letteratura sono proprio resi tali da una singola battuta o azione. Non dal fatto che li ritroviamo per migliaia di pagine. Il fatto poi che si tenda sempre, scolasticamente, a impostare una certa visione fin troppo ‘impegnata’ della letteratura porta a qualche confusione in tal senso, col pensiero che sia necessaria chissà quale lungaggine artificiosa per rendere meritevole un personaggio.  Eppure le grandi storie e i grandi personaggi stanno spesso in un dettaglio o in una frase.

Come diceva David Punter a proposito del Frankenstein di Mary Shelley, questo romanzo «ha una trama semplice, che è grandemente complicata dai sofisticati congegni narrativi» (2006, p. 109). Che è bene ci siano, ma non sono quelli ad aver reso immortale Victor Frankenstein e la sua Creatura. Per quello bastano tre o quattro frasi del libro.

Aloy ha al suo centro un’identità molto salda e anche molto statica. Prima l’ho definita “pietrificata”. Se si vuole usare un’espressione che le renda più giustizia potremmo definirla “marmorea”. Nel senso che ha un’identità nobilitante e durevole. È un modello, come detto. Ma il marmo è anche ben poco trasportabile e ben poco malleabile. I quattro lord di Resident Evil Village sono come argilla: basta un tocco per dare loro qualsiasi forma si voglia.

Oppure, per fare un esempio più geek: Aloy è come una costosa action figure. La si ripone in una vetrina e la si ammira. E guai a coloro che si permettono di toccarla. I personaggi come i quattro lord sono come il pupazzo preferito di quando eravamo bambini: si può sempre inventare una qualche storia su di loro, in contesti sempre diversi. Non c’è un modo giusto o sbagliato di collocarsi, ma sono due forme differenti di esistenza. Che evocano risposte differenti in coloro che vi si relazionano.

È su questa base che si stratifica poi tutto il resto. Tutti i pur corretti giudizi di natura morale. Ma finché la discussione ricade sempre e solo su di essi c’è sempre il rischio di una prospettiva monca, incompleta.

Bibliografia

Berg P. (2001), The Post-Environmentalist Directions of Bioregionalism, 2001. Link.

Carr D. (2008), Le regole del gioco, il fardello della narrativa. Enter the Matrix, in M. Bittanti (a cura di), Intermedialità. Videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Unicopli, Milano, pp. 143-162.

Carrara M. (2021), Corso base di scrittura creativa e sceneggiatura, «Agenzia Duca». Link.

Condis M. (2020), Sorry, Wrong Apocalypse: Horizon Zero Dawn, Heaven’s Vault, and the Ecocritical Videogame, «Game Studies», vol. 20, n. 3.

Forni D. (2017), Horizon Zero Dawn: The Educational Influence of Video Games in Counteracting Gender Stereotypes, «ToDigra», vol. 5, n. 1, pp. 77-105.

Gamberetta C. (2011), Due o tre parole su Harry Potter, in «Gambery Fantasy», 21 settembre 2011. Link.

Marks D. (2007), L’arco di trasformazione del personaggio. Come e perché cambia il protagonista di una grande storia, trad. it. D. Scopelliti, Dino Audino, Roma.

Nae A. (2020), Beyond Cultural Identity. A Critique of Horizon Zero Dawn as an Entrepreneurial Ecosystem Simulator, «Postmodern Openings», vol. 11, n. 3, pp. 269-277.

Parenzi Vieira P. e Mota R.R. (2018), A Representação Feminina em Horizon Zero Dawn, Proceedings of SBGames 2018, pp. 694-703.

Punter D. (2006), Storia della letteratura del terrore. Il «gotico» dal settecento ad oggi, trad. it. O. Fatica e G. Granato, Editori Riuniti, Roma.

Toniolo F. (2020), Muoversi tra città e wilderness. Il confine nei videogiochi di ruolo fantasy, in O. Castiglione (a cura di), Confini, Aracne, Roma, pp. 265-282.

Truby J. (2009), Anatomia di una storia. I ventidue passi che strutturano un grande script, trad. it. V. Tavini, Dino Audino, Roma.

Woolbright L. (2018), Ecofeminism and Gaia Theory in Horizon Zero Dawn, «Trace», vol. 2.

I videogiochi survival horror: la storia – parte 4

Quarta parte della storia sul survival horror, dedicata ad Amnesia e Slender Man

Riassumiamo in estrema sintesi quanto indicato nella parte 3 (alla cui lettura si rimanda per una panoramica più ampia). Negli anni immediatamente precedenti all’affermazione di YouTube, i videogiochi horror hanno assistito a una progressiva virata verso l’action, soprattutto (ma non solo) nelle produzioni occidentali. Alcune saghe horror giapponesi rimangono più vicine ai modelli del periodo precedente, ma sono relegate nei confini di una determinata nicchia. In questo quadro emergono tuttavia dei “nuovi” survival horror, indipendenti, prodotti in occidente, che abbandonano l’action, ottengono un grandissimo successo e divengono una presenza costante su YouTube.

Vengono di seguito presentati, singolarmente, vista l’importanza che hanno rivestito, i tre “apripista” che in tempi diversi hanno maggiormente sospinto questa nuova ondata: Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010) e Slender: The Eight Pages (Parsec Productions, 2012). A essi, nella quinta parte, si aggiungerà Five Nights at Freddy’s (Scott Cawthon, 2014) come ultimo elemento del terzetto.

Nel loro periodo di uscita, l’affermazione del gaming sulla piattaforma è un processo in corso, e diversi youtubers hanno raggiunto l’effettiva notorietà proprio grazie a uno o più di questi videogiochi. Amnesia: The Dark Descent, in particolare, è strettamente legato alla carriera di PewDiePie (Smith T., Obrist, Wright, 2013), Markiplier (Youtubers First Videos | Youtubers First Time! ™, 2015) e Favij (NiKyBoX, 2012a).

Una breve annotazione: alcuni dei discorsi che saranno trattati qui e nella quinta parte li ho anche affrontati in Evolution of The YouTube Personas Related to Survival Horror Games (un mio articolo accademico, in inglese, pubblicato su «Persona Studies») e, in misura minore, in altri miei articoli dedicati a YouTube. Rinvio alla pagina delle pubblicazioni per i vari link agli articoli.

Amnesia: The Dark Descent (e Penumbra): la relazione simbiotica

Amnesia: The Dark Descent non è stato il primo survival horror realizzato da Frictional Games (un team indipendente svedese fondato nel 2007), e già i suoi predecessori rivelano alcuni elementi di interesse per il presente discorso. Il videogioco è stato preceduto dalla trilogia Penumbra: Overture (Frictional Games, 2007), Penumbra: Black Plague (Frictional Games, 2008) e Penumbra: Requiem (Frictional Games, 2009). Quest’ultimo, in realtà, è un’espansione del suo predecessore, ma viene ugualmente considerato come un terzo episodio. In ogni caso sono tutti e tre ascrivibili a questo genere.

Il primo Penumbra era nato come tech demo per mostrare le capacità dell’HPL Engine 1 (palese riferimento a Howard Phillips Lovecraft) sviluppato dal team, ma osservando i pareri positivi sulla demo gli sviluppatori hanno poi deciso di portarne avanti lo sviluppo, per rilasciarlo come prodotto compiuto. Il videogioco è ambientato in una miniera popolata da creature mostruose, la storia viene raccontata tramite le pagine di un diario disseminate per l’ambiente, ha una visuale in prima persona, contiene al suo interno alcuni enigmi, consente di trascinare o afferrare un gran numero di oggetti (quest’ultimo aspetto deve molto all’origine del gioco come tech demo, nata per mostrare il funzionamento dell’engine, compresa la fisica degli oggetti). Prevede inoltre l’utilizzo di una torcia con durata limitata e include dei farraginosi combattimenti corpo a corpo.

Non è uno sparatutto (non sono presenti armi da fuoco), anche se condivide con gli FPS la visuale, racchiude diversi elementi ricorrenti del survival horror (il diario, gli enigmi, l’impiego della torcia…). Al tempo stesso, però, sembra seguire un filone evolutivo differente sia rispetto allo sviluppo action di Resident Evil 4 e Dead Space, sia ai videogiochi come Deadly Premonition e Cursed Mountain.

La differenziazione, qui intuibile soprattutto osservando il videogioco a posteriori, diventa progressivamente più evidente con i successivi videogiochi di Frictional Games. Un’importante differenza è riscontrabile già nel successivo Penumbra: Black Plague, in cui i combattimenti (il cui funzionamento era stato largamente criticato, in Penumbra: Overture) sono stati completamente rimossi. Non è più possibile affrontare i nemici, è possibile solo nascondersi e fuggire. Aumentano inoltre i jump scares, alternati da fasi più o meno lunghe volte a far crescere la tensione.

Durante il periodo di uscita della trilogia di Penumbra, il gaming su YouTube si trova ancora in uno stadio di formazione. Stanno nascendo canali specificamente dedicati ai let’s play e i video sull’argomento sono in crescita, ma ancora non è stata raggiunta la massa critica, e la piattaforma è dominata da altre tipologie di video, come il vlogging.

Osservando retroattivamente i video relativi al videogioco, caricati di anno in anno, è possibile individuare il germe del cambiamento che sarebbe giunto a breve con Amnesia: The Dark Descent. Il 2007 presenta, oltre ai trailer, alcuni video riconducibili alla categoria “how to” (come jazzkomp, 2007 e KPIQA, 2007). Entrambi i video mostrano come uccidere i cani presenti nella miniera del primo Penumbra, poiché si tratta di un nemico particolarmente ostico, al punto che alcuni giocatori pensavano fosse impossibile eliminare queste creature.

Poi ci sono video di sostanziale trolling (KirmiZ, 2007) e brevi filmati su determinate parti del gioco (come l3ks1, 2007 e Altraum, 2007). A parte la bassa qualità visiva, ciò che emerge immediatamente è la completa assenza di commentari vocali; quando – non sempre – uno youtuber inserisce pensieri e opinioni lo fa tramite scritte in sovraimpressione o piccoli box. I video reperibili sono inoltre molto pochi, soprattutto escludendo trailer e video rimossi.

Il quadro complessivo di due anni più tardi risulta già molto diverso. I video del 2009, relativi non solo ai due capitoli successivi della saga ma anche al primo Penumbra, sono molto più numerosi e soprattutto presentano impostazioni differenti. Perdurano i video brevi o brevissimi volti a mostrare uno specifico elemento (come un easter egg in VAXIS TAA, 2009, della durata di appena nove secondi), affiancati da gameplay a episodi in cui è presente un commentario audio dello youtuber (come TheScarlettears, 2009, ColdTrix8, 2009 e Helloween4545, 2009a) e altri in cui i commenti rimangono in forma scritta (come Captain Perfect, 2009a). Compaiono inoltre anche contenuti di carattere più creativo che remixano determinati materiali per realizzare nuovi contenuti video. Un esempio è il fake trailer di un ipotetico film su Penumbra, realizzato montando spezzoni di diverse pellicole horror (bloodrunsclear, 2009).

Questa moltiplicazione è già sufficiente a generare un differente livello empatico. Si può fare un breve confronto legato alle prime due comparse del mostro in Penumbra: Black Plague all’inizio del gioco. Nel primo caso si tratta di un piccolo jump scare, in cui il nemico viene intravisto mentre si muove dietro una porta, nel secondo il mostro si mette sulle tracce del protagonista nascosto e, se lo trova, comincia a inseguirlo.

Nel video di Captain Perfect (2009a), fornito solo di pochi commenti scritti, lo youtuber si limitava a scrivere «What the fuck was that!» (minuto 4:03), e fugge poi dal mostro senza scrivere nulla (Captain Perfect, 2009b). Si segnala che, al momento in cui si sta scrivendo ora, quei commenti non sembrano più visualizzabili.

Hellowen4545 inserisce invece un commentario audio, ma in entrambe le situazioni (2009b e 2009c) appare più stupito che spaventato, continuando a ripetere frasi come “what the hell is that?” con un tono perplesso. La maggior parte dei gameplay dedicati agli episodi di Penumbra è però collocabile nel periodo successivo all’uscita di Amnesia: The Dark Descent, tanto che sono rintracciabili commenti ai video in cui i Penumbra vengono considerati dei “cloni” di quest’ultimo gioco, quando ne sono invece i predecessori. Il gameplay di Markiplier del 2012 presenta un commentario audio molto più vivace e variegato, in cui lo youtuber reagisce alla prima apparizione con tono di sfida (2012a), ma alla seconda continua a urlare in maniera scomposta mentre il mostro è sulle sue tracce (2012b).

L’anno successivo giunge invece il gameplay di Favij (FavijTVtm, 2013), in cui viene inserita in un angolo la cam che mostra il busto dello youtuber, così da poter osservare le sue reazioni live. Favij, a inizio video, dice di conoscere già la parte iniziale del videogioco, perché lo aveva giocato l’anno precedente sul canale NiKyBox (2012b) per aprire la sua serie “Giochi nel Buio”, e pertanto premette che non dovrebbe avere «infarti esageratamente incredibili durante questo primo episodio» (FavijTVtm, 2013, minuto 1:42). Alla prima comparsa del mostro ha una moderata reazione, dicendo di non ricordarsi quel momento, mentre alla seconda, pur essendo pronto, comincia a esclamare ad alta voce.

Confrontandolo anzi con il suo precedente gameplay dello stesso gioco (NikYBoX, 2012b, in cui non era presente la cam) le reazioni sono più ‘urlate’ e plateali, nonostante conosca quella parte. Si noti peraltro che, in linea con le imprecazioni più frequenti degli youtubers italiani (Kurpiel, 2016) utilizza spesso l’espressione «cazzo!» (e, in generale, altre forme di intercalare; Fägersten, 2017) e – seguendo un’altra pratica ricorrente – assegna un soprannome al mostro (Kurpiel, 2017), chiamandolo Piff.

Le reactions ai videogiochi horror, come emerge già da questo breve esempio, vengono tendenzialmente sempre più “spettacolarizzate” nel tempo. Una reazione può anche essere in chiave comica, soprattutto se il videogioco consente alcune pratiche differenti rispetto al mero avanzamento lungo il percorso prestabilito. Restando sull’esempio del mostro che compare in Penumbra: Black Plague, già un video del 2008 mostra come sia possibile ‘giocare’ con la fisica del gioco e la capacità del protagonista di spostare oggetti. Nel video (NossX, 2008) viene impilata un’immane quantità di oggetti davanti alla porta che il mostro deve spalancare, e appena l’azione viene compiuta tutti questi oggetti sono improvvisamente spinti via come in un’esplosione.

Al tempo stesso vengono scientemente ricercati i videogiochi ritenuti più spaventosi e si cerca di giocarli per la prima volta in video, così da non conoscere già i colpi di scena e ottenere reazioni più naturali (o che paiano tali). È uno dei motivi per cui Favij, ai tempi di NikYBoX, (2012b), aveva inaugurato la sua rubrica con Penumbra: Black Plague invece che con il successivo – e molto popolare – Amnesia: The Dark Descent, perché aveva già giocato per intero quest’ultimo. Questa “ricerca della paura”, e soprattutto degli spaventi improvvisi, si accompagna alla felice constatazione che i videogiochi di Frictional Games si fanno progressivamente più paurosi. È quanto sottolinea Markiplier (2012a) già a proposito di Penumbra: Black Plague, che promette di essere molto più spaventoso del predecessore, il quale aveva un solo momento veramente pauroso in tutto il gioco, legato all’improvvisa comparsa di un verme gigante che sfonda un portone.

È in questa fase evolutiva che si è inserito Amnesia: The Dark Descent, il quale ha contribuito a far nascere quel “bisogno di horror” su YouTube, in un momento in cui alcuni vedevano nella virata action l’unico futuro per questo genere. Come hanno sottolineato in molti, a partire dagli stessi creatori del gioco, quella fra YouTube e Amnesia: The Dark Descent è stata una relazione simbiotica particolarmente vantaggiosa per entrambe le parti. Non solo il gioco ha contribuito alla ‘nascita’ di molti youtubers di successo, e ha accresciuto le proprie vendite grazie a loro, ma ha anche contribuito all’evoluzione del survival horror e, al tempo stesso, dei let’s play:

«“I think Amnesia got a lot of free PR because of “Let’s Play” videos, but I also think that Amnesia opened people to a new style of ‘Let’s Play,’” Frictional Games creative director Thomas Grip told me. “Normally, games are very skill-based. You need to be concentrated and play a certain way to play ‘properly.’ But with horror games, the aim is not to win, but rather to get immersed. That gives a lot more space for ‘Let’s Players’ to put on a show, either by being very scared or just fooling about. On top of that it is really fun to see someone scared for some reason”» (Maiberg, 2015. Corsivi miei).

E ancora:

«Speaking to VICE Gaming in October 2014, The Dark Descent’s creative director, Thomas Grip, explained that there’s ‘a lot to be done in making horror more personal and thought-provoking’, and that ‘a game could be terrifying with a bare minimum of features’. And that’s something indies have been doing while the more publicized, more predictable alternatives take their turns at being the open-world game of the moment: maximizing impact while maintaining modest budgets, development mirroring the gameplay of survival-horror games themselves in using few resources but delivering chills aplenty. […] The popularity of horror in the indie-games field owes much to YouTube, to gamers posting footage of themselves getting terrified In the company of these low-budget, one dare say more intimate experiences – the first-person perspective certainly encourages a deeper bond between player and protagonist» (Diver, 2016: 56-57. Corsivi miei).

Al di fuori di una certa retorica relativa al “fare tanto con poco”, i team indipendenti come Frictional Games sono effettivamente riusciti a risolvere il problema sentito nello stesso periodo di tempo dalle cosiddette produzioni Tripla A: col crescere dei costi di produzione occorre puntare su generi più “sicuri”, e il survival horror non sembrava rientrare nel novero. Amnesia: The Dark Descent (e poi altri videogiochi, come Slenderman e Five Nights at Freddy’s) ha però mostrato la possibilità di realizzare profitti con l’horror mantenendo costi accessibili, e questo è avvenuto anche grazie agli youtubers. Osservando il postmortem del gioco (Grip, 2011) e i due articoli che fanno il punto della situazione a distanza, rispettivamente, di uno e due anni dall’uscita (Thomas KL, 2011, 2012a), è possibile tracciare la progressione nelle vendite di Amnesia: The Dark Descent.

Nel postmortem riportano di aver ottenuto un buon risultato, seppur non miracoloso, durante il primo mese dall’uscita, con 34.000 copie, e nei mesi successivi le vendite sono andate in crescendo, anche grazie ad alcune promozioni, fino a raggiungere le 350.000 unità a luglio 2011 (Grip, 2011: 5). Al di fuori dei saldi non vengono però indicate le ragioni dietro alla diffusione e alla longevità dell’interesse per il videogioco, elementi analizzati più nel dettaglio all’interno dell’articolo sul loro blog (Thomas KL, 2011). I fattori citati sono sostanzialmente due, entrambi riconducibili all’user response: creazione di materiali e discorsi sul videogioco e realizzazione di mod per il medesimo.

Per il primo punto citano, come esempio primario, «the Amnesia WTF video that reached 4 million views» (ivi). Per il secondo sottolineano la differenza con Penumbra: in quel caso un solo utente aveva avviato un progetto di modding, mai portato a termine, mentre per Amnesia: The Dark Descent sono presenti almeno trecento progetti in cantiere, di cui una ventina portati a termine. Questi due elementi si rafforzano peraltro a vicenda, generando un circolo virtuoso.

Le mod, oltre a rendere più varia e duratura l’esperienza di gioco, sono a loro volta mostrate nei video di youtubers come PewDiePie e Markiplier. Questa esperienza ha peraltro lasciato tracce nella community di entrambi. Da una partita a una mod del gioco è nata l’avversione di PewDiePie per i barili, che è divenuta un joke ricorrente nei suoi video. Nel caso di Markiplier, invece, si possono ricordare ad esempio alcuni videogiochi fanmade che richiamano le sue partite a quel videogioco, come Darkiplier: The “Mark” Descent (The One: Sayncraft, 2016) il quale, a dispetto del titolo, è in realtà un più ampio collage di riferimenti a molti giochi horror che lo youtuber ha portato sul suo canale.

Tutto ciò, comunque, contribuisce alla diffusione delle mod e spinge nuovi utenti ad acquistare il gioco e – se ne sono in grado – a realizzare a loro volta una mod. I contenuti creati dai fan possono attenersi allo spirito originario dell’opera oppure compiere significative deviazioni. Può trattarsi di inserti comici come in Killings In Altstadt, una mod in cui uno dei mostri del gioco è trasformato in un mercante russo, con annesso colbacco, e nel suo negozio è possibile ascoltare la musica dei negozi di The Legend of Zelda: Ocarina of Time (PewDiePie, 2012; Markiplier, 2012c).

L’articolo approfondisce anche la questione delle vendite. Il conteggio ammonta a quasi 400.000 unità, di cui circa 300.000 vendute in sconto. Si tratta di una percentuale elevata di copie scontate ma, come sottolineato, anche le copie vendute a prezzo pieno sono circa 6000 al mese, un numero che, oltre a essere più che sufficiente per stipendi e costi di mantenimento, risulta in crescita rispetto all’anno precedente (Thomas KL, 2011), ulteriore segnale del ritorno economico prodotto dalla vitalità della community.

Il report del 2012 traccia una situazione ancor più rosea, con 710.000 unità sicure e, in base all’andamento di determinati bundle in corso, un totale effettivo che può oscillare fra 900.000 e 1.300.000 copie (Thomas KL, 2012a). Pure in questo caso sconti e offerte hanno ricoperto un ruolo significativo, ma anche le copie vendute a prezzo pieno sono ulteriormente aumentate, passando a una media di 10.000 unità al mese. Aggiunge inoltre che pure la serie Penumbra, probabilmente anche trainata dal successo di Amnesia: The Dark Descent, registra stabilmente circa 900 copie vendute ogni mese a prezzo pieno (Thomas KL, 2012a). È anche utile ricordare che, su YouTube, la maggior parte dei video relativi a Penumbra è giunta dopo l’uscita del successivo gioco di Frictional Games, il che sembra contribuire a spiegare queste vendite di un gioco ormai datato, persino leggermente in crescita rispetto al passato.

Nel complesso, Frictional Games ha guadagnato oltre il decuplo della cifra spesa per sviluppare il videogioco.

E negli anni successivi gli incassi sono ulteriormente cresciuti. A luglio 2018 oltre 2.600.000 persone avevano avviato almeno una volta Amnesia: The Dark Descent su Steam (Games–achievements–players, 2018), segno che il numero complessivo del venduto è ancor più elevato, contando coloro che l’hanno acquistato senza averci mai giocato e coloro che l’hanno comprato su una diversa piattaforma.

Le ragioni di questo considerevole successo sono molteplici: «This success is due to many factors, some of which are the uniqueness of the game (horror games without combat do not really exist on PC), the large modding community (more on this later) and the steady flood of YouTube clips (which is in turn is fueled by the modding community output)» (ivi. Corsivi miei). Sempre a proposito di YouTube e modding, poco oltre l’articolo aggiunge:

The output of modding community has been quite big as well. Amnesia is as of writing the 2nd most popular game at ModDB and sports 176 finished mods. Not only do this amount of user content lengthen the life of the game, it has also increased the amount of YouTube movies made with an Amnesia theme. There are lots of popular Let’s Play channels that have devoted quite a bit of time with just playing various user-made custom stories. As mentioned earlier this have probably played a large role in keeping our monthly sales up. (ivi. Corsivo mio).

È peraltro in quest’anno che sono nati o cresciuti alcuni canali di gaming molto popolari, e – come detto – questo loro percorso è proprio legato ad Amnesia: The Dark Descent e altri videogiochi horror. È un ulteriore segnale del fatto che non sia stato solo il gioco di Frictional Games a beneficiare degli youtubers, ma anche il contrario.

Slender Man: creepypasta, videocamere e prove di coraggio

Volendo effettuare una semplificazione si potrebbe affermare che, laddove Amnesia: The Dark Descent ha contribuito alla diffusione dei let’s play (soprattutto a tema horror), Slender Man (o Slenderman) li ha resi appetibili per un’audience di bambini e ragazzi.

Il rapporto fra Slender Man e il gaming su YouTube è scomponibile in due differenti direttrici, una legata al fenomeno delle creepypasta e l’altra ai videogiochi realizzati su questo personaggio. Nel primo caso è possibile parlare di videogiochi come creepypasta, nel secondo di videogiochi sulle creepypasta.

Slender Man è un immenso fenomeno crossmediale bottom up nato praticamente per caso nel 2009, quando un utente di Something Awful posta due immagini modificate in risposta al contest “create paranormal images” (Gerogerigegege, 2009). In queste immagini in bianco e nero, raffiguranti dei bambini, è stata inserita sullo sfondo la sagoma di un uomo alto, magro e senza volto.

La creatura, definita “Slender Man”, si diffonde in brevissimo tempo prima su /x/ (la board di 4chan dedicata al paranormale) e poi in diversi altri siti e piattaforme. Nel frattempo vengono progressivamente definite le caratteristiche di questa creatura, per quanto non si sia formato un canone stringente (Chess, 2015), anche per via della natura fortemente cooperativa e condivisa del progetto (Chess, 2012; Freitas, Amaro, 2016; Smith, 2017) in cui diversi utenti con differenti capacità e punti di vista hanno plasmato la generica idea di fondo.

Quest’idea già nasceva, come ha affermato il suo creatore in un’intervista, da una commistione di vari spunti: «I was mostly influenced by H.P Lovecraft, Stephan [sic] King (specifically his short stories), the surreal imaginings of William S. Burroughs, and couple games of the survival horror genre; Silent Hill and Resident Evil. I feel the most direct influences were Zack Parsons’s “That Insidious Beast”, the Steven [sic] King short story “The Mist”, the SA tale regarding “The Rake”, reports of so-called shadow people, Mothman, and the Mad Gasser of Mattoon» (Tomberry, 2011).

«Users critiqued these performances, discussing what elements made them most effective. Successive performances built upon existing performances and discussions» (Peck, 2017: 35). Vengono prodotte finte immagini d’epoca, documentazioni, programmi radiofonici, mockumentary e molto altro, con narrazioni che mettono in correlazione fra loro questi diversi testi, i quali si citano reciprocamente. Vengono rigettate le produzioni che risultano palesemente inautentiche, ma nonostante questo nascono anche molti testi lontani dall’originaria idea horror, fra cui le numerose fanfic a tema sentimentale su Slender Man (Chess, 2015). Restando nel primario filone horror, invece, le diverse apparizioni della creatura presentano alcune caratteristiche comuni, che è utile riportare perché si relazionano anche con i videogiochi sul tema:

«One dominant theme that materialized is the haunting presence of the creature. The protagonists are almost never in direct contact with Slender Man. They are aware of his presence, rarely through sightings, but most often because of physical reactions to his proximity. They start coughing and wheezing, sometimes they lose consciousness, and they also experience an overpowering desire to sleep. Amnesia plays a big part in the plot, as the protagonist discovers tapes of himself talking to people and being in places that he simply cannot recall» (Boyer, 2013: 251-252. Corsivi miei).

Slender Man si è rapidamente diffuso come nuova entità folklorica. Possiede infatti i tre attributi del folklore: collettività, variabilità e performance (Bauman, 1986, citato in Smith, 2017: 9). Inoltre nella sua figura si uniscono due concetti di particolare rilevanza, identificabili coi termini “weird” e “eerie”, intendendo il primo come la presenza di qualcosa che appare fuori posto, e il secondo come fallimento dell’assenza o fallimento della presenza (Fisher, 2016: 61). Slender Man, grazie al suo statuto ambiguo, può essere inquadrabile in entrambe le prospettive. La sua presenza, intuibile ma quasi mai certa, è legata al mistero e alla riflessione su di esso, tramite gli inquietanti indizi che trapelano. Ma la sua figura è anche, al pari degli orrori lovecraftiani, una “presenza” eccessiva e indicibile propriamente weird. Queste due caratteristiche sono riscontrabili anche nei videogiochi legati a Slender Man e nei numerosi “cloni” derivanti dal loro successo.

Quando è uscito Slender: The Eight Pages (Mark J. Hadley, 2012), inizialmente noto solo come Slender, è stata da più parti sottolineata la sua minimalistica efficacia come videogioco horror. In questo gioco bisogna raccogliere, come suggerisce il titolo, otto pagine disseminate casualmente in determinati punti di un bosco notturno. Col proseguire della raccolta Slender Man si manifesta sempre più spesso e diviene sempre più pericoloso.

Già Amnesia: The Dark Descent si era rivelato un ottimo survival horror con un costo di realizzazione di circa 360.000 dollari, una cifra decisamente lontana dal budget di un “tripla A” ma comunque relativamente elevata. Slender: The Eight Pages è invece un piccolo progetto, amatoriale, con un costo irrisorio, che è stato tuttavia capace di ottenere una considerevole risonanza, in primo luogo grazie ad alcune felici scelte di design. Un’analisi del gioco è stata presentata, fra gli altri, da Frictional Games (Thomas KL, 2012b), poi recuperata e ampliata da Chris Pruett (2012a).

Entrambi sottolineano l’importanza di non poter vedere chiaramente Slender Man (fissarlo per troppo tempo fa impazzire il personaggio) e non conoscere – almeno nelle prime partite – le modalità con cui la creatura opera. «The game hides the mechanics that govern how the monster hunts you down and what makes you eventually get killed. I think this was a good move as you are free to make up for yourself what happened» (Thomas KL, 2012b) e «By hiding the core rule set and giving you almost no visual information about the behavior of the game, Slender robs you of the comfort that predictability brings. It forces you to think on your feet, to accept the narrative rather than focus on the mechanic» (Pruett, 2012a).

I due elementi sono collegati: la mancata conoscenza delle meccaniche di gioco rende più difficile rompere l’immersività, e quando il fruitore si trova davanti un “vuoto” tende a riempirlo con qualcosa di più spaventoso di quanto si potrebbe effettivamente presentare (Rouse, 2009: 17). Si tratta di una scelta che contrasta con gli horror di stampo più action, in cui i mostri sono (sovra)esposti, che si ricollega invece alla tradizione di alcuni survival horror precedenti come Fatal Frame e, risalendo più indietro, all’Orrore Cosmico di Lovecraft.

A proposito di Fatal Frame, il direttore della serie Makoto Shibata, durante un’intervista utilizzò le seguenti parole a proposito della modalità con cui avevano introdotto la componente horror nei loro giochi: «I believed that our method to invoke the fear in the player’s own imagination maximizes the recipient’s fear. We do not simply show sacry things, but provide fragmental information and create a situation that forces the player to imagine these horrors. I personally call it, “Subtracting horror”» (Stuart K., 2006, citato in Picard, 2009: 111). A proposito di Lovecraft si possono ricordare le parole dell’autore stesso: «L’unico dato di fatto è questo: se venga stimolato o no nel lettore un senso di terrore e di contatto con sfere e potenze ignote, un atteggiamento indefinibile di timoroso ascolto, come captare il battere di nere ali o lo stridere di forme e entità esterne ai confini dell’universo conosciuto. E, naturalmente, più il racconto riesce a trasmettere questa atmosfera in modo completo e uniforme, migliore è come opera d’arte in quel settore» (Lovecraft, 1993 [1927]: 462).

Questa visione evocata presenta una correlazione anche con gli altri due punti sottolineati sul blog di Frictional games: la «sensory deprivation» (vedendo sempre gli stessi elementi continuamente ripetuti il giocatore crede di scorgere cose che non esistono) e la «tunnel vision» creata dalla torcia, in cui i margini dello schermo restano perennemente avvolti nell’oscurità (Thomas KL, 2012b). A proposito della sensory deprivation ricordiamo anche che «la deprivazione dei normali input visivi può stimolare l’occhio interiore, producendo sogni, immagini vivide o allucinazioni. Esiste perfino un termine specifico per riferirsi alle sequenze di allucinazioni – varie e dai colori brillanti – che confortano o tormentano chi è tenuto nell’isolamento o nell’oscurità: è il “cinema del prigioniero”. Per produrre le allucinazioni non occorre una deprivazione visiva totale: la monotonia degli stimoli visivi può avere lo stesso effetto» (Sacks, 2013 [2012]: 45).

Pruett aggiunge la grande importanza che ricopre il suono all’interno di questo breve videogioco: «I think about 80% of the effectiveness of Slender is the sound. The sound is overwhelming. It demands your attention, forces your blood to pump in spite of the otherwise unremarkable graphics and presentation. The way the sound increases in intensity with each note you find also keeps the tension from falling with repetition» (Pruett, 2012a).

E in un altro articolo, in cui parla di Slender e di Five Night’s at Freddy’s, segnala altri due punti, che risultano peraltro di particolare importanza in relazione al legame con YouTube: «Pop-Out Scare Failure Event» e «Mettle Tests» (Pruett, 2015). Il primo punto riguarda un utilizzo oculato degli scare jumps: «Rather than pop some hideous creature out of a dark corner every few minutes, these titles build tension with the threat of a pop-out scare, which doesn’t actually occur until the player fails and reaches the game over state» (ivi. Corsivo dell’autore). Lo scare jump collocato al vertice di una sequenza atta a generare tensione è un elemento efficace ma non originale, è rintracciabile anche in diversi film horror, ma in altri contesti è seguito da un momento distensivo, mentre in Slender: The Eight Pages il culmine coincide con il game over.

Il secondo punto è invece relativo alla popolarità di questo videogioco fra i più giovani: «The design of Freddy’s and Slender is good, but I think their virality amongst kids has to do with them being tests of mettle. These games are a safe way to prove your courage, both to yourself and your classmates. […] Slender and Freddy’s provide easy-to-reproduce fear challenges that kids can perform without involving adults» (ivi).

Il fattore “prova di coraggio” potrebbe essere una delle caratteristiche che ha contribuito a rendere l’esperienza del videogioco non esauribile con la visione di un let’s play, pur trattandosi di un prodotto semplice e veloce da visionare nella sua interezza. È presente una componente di emulazione e sfida di cui il let’s play costituisce un facile innesco. Rispondendo a un commento relativo ai video su YouTube, Pruett scrive:

«Agreed! The rise of Let’s Play and Twitch has made these games more accessible to teens than ever before. But I would argue that, in this era of dramatically increased visibility amongst teens thanks to YouTube, Freddy’s and Slender are breakout successes because of the way that they are designed. Pewdiepie plays a lot of games, but most of them do not become middle school phenomenons. These titles are structured in a way that allows them much larger success» (ivi. Corsivo mio).

Slender: The Eight Pages è peraltro solo uno dei numerosi videogiochi fanmade che sono stati realizzati su Slender Man, per quanto sia stato quello che ha impresso una certa direzione a molti degli altri giochi realizzati successivamente, considerando il successo della sua formula su YouTube e fra i ragazzi. Molti di questi videogiochi presentano cambiamenti prevalentemente grafici, con ambientazioni differenti rispetto al bosco di Slender: The Eight Pages, ma con la stessa struttura basata sulla raccolta di un certo numero di oggetti e lo “stalking” di Slender Man.

Fra questi si ricordano Slender Man’s Shadow (Marc Steene, Wray Burgess, 2012), Slender Space, Slender Rising (Michael Hegemann, 2013) e Slender Rising 2 (Michael Hegemann, 2014), SlenderMod (Tim Spaninks, Marco van den Oever, 2012), Slender: Flashlight (Triggered Games, 2013), Slender Nightmare Camp (fortunacus, 2013), Slender: Anxiety (the_adc, 2014) e molti altri. La maggior parte di questi videogiochi è presente su YouTube in numerosi video, alcuni dei quali (per esempio quelli di PewDiePie e Markiplier) con un numero di visualizzazioni molto elevato. Nessuno di essi è disponibile su Steam, sono tutti scaricabili o giocabili su siti come Game Jolt – in cui la ricerca del termine “slender” genera oltre duecento risultati – Newgrounds o Dark Horror Games.

Al tempo stesso sono estremamente diffusi i videogiochi che mantengono la stessa struttura di Slender: The Eight Pages modificando però i personaggi coinvolti e inserendo differenti inseguitori rispetto a Slender Man. Fra gli “stalker” inseriti in questi videogiochi si possono ricordare, a titolo d’esempio, una donna fantasma (Dream of the Blood Moon, The Unbeholden, 2013), Babbo Natale (Darth Santa, jaekkl, 2015), il windigo (The Wendigo, warka, 2017), Tinky–Winky dei Teletubbies (Slendytubbies, Sean Toman, 2012), Slender Man in versione pony (Derp Till Dawn, Donitz, 2013) e altri.

Anche per questa categoria, i video reperibili su YouTube sono spesso numerosi e molto visualizzati. Sono stati inoltre realizzati un vasto numero di videogiochi di differenti tipologie, incentrati su Slender Man o comunque in cui compare come personaggio. In linea di massima è possibile affermare che l’operazione svolta consiste nell’ibridazione fra Slender Man e un popolare videogioco del momento, come nel caso di Slendertale (Khamelot, 2016), il quale unisce meccaniche e personaggi di Slender Man e Undertale (Toby Fox, 2015).

Mentre era in corso il flusso di videogiochi fanmade relativi a Slender Man è uscito, nel 2013, Slender: The Arrival (Blue Isle Studios, 2013), il videogioco ufficiale dedicato al personaggio, nonché l’unico in vendita su Steam e su console. Molti degli elementi che lo compongono sono una versione ampliata di quanto già visto in Slender: The Eight Pages e altri videogiochi realizzati dai fan. L’inserimento di una trama più o meno vaga, per esempio, era stato già compiuto in giochi come Slender’s Woods (ZykovEddy, 2012) e Haunt: The Real Slender Game (poi rinominato semplicemente Haunt, ParanormalDev, 2012).

Almeno uno di questi elementi merita una menzione a parte: l’utilizzo di una telecamera da parte del protagonista. Anche in questo caso non costituisce una novità nel panorama dei videogiochi su Slender Man, e tantomeno nei videogiochi in generale. Si ricorda per esempio il particolare precedente di The Fear (Digital Frontier, 2001), videogioco full motion rilasciato solo in Giappone in cui il protagonista è un cameraman.

La sua presenza nel gioco ufficiale su Slender Man, però, non è priva di interesse. Già in Slender: The Eight Pages la presenza di una telecamera era intuibile per almeno due ragioni, relative alla lore del personaggio: Slender Man sarebbe visibile solo attraverso una telecamera, e la sua comparsa provoca dei disturbi (visibili nel videogioco) negli apparecchi di registrazione. È un esempio di glitch horror (Crawford, 2017), in cui l’ansia è legata al malfunzionamento e alla fallibilità della tecnologia, come riscontrabile in The Ring o nel videogioco Eternal Darkness: Sanity’s Requiem. In Slender: The Eight Pages questo malfunzionamento è però percepito in prima persona, e si lega strettamente alla visione (tramite telecamera). Una presenza digitale che, in Slender: The Arrival, è resa esplicita tramite diversi indicatori a schermo, sempre attivi, fra cui l’icona REC.

L’importanza della telecamera può essere sintetizzata in tre parole, ciascuna delle quali fornisce una immagine di sintesi sulle componenti coinvolte: immersività, incertezza e mediazione.

Immersività: tendenzialmente, nei videogiochi, le informazioni visualizzate a schermo (definite HUD, Head–Up Display) sono percepite come un elemento capace di ridurre o annullare l’immersività, perché rivelano immediatamente la finzionalità del mondo di gioco, mostrandone alcune statistiche (i punti vita del personaggio, il punteggio, la mappa di gioco, lo stato di degradamento degli oggetti equipaggiati…). Alcuni videogiochi, come quelli legati alle corse automobilistiche, consentono di inserire con una certa naturalezza numerose informazioni, ponendole nel cruscotto dell’automobile, ma si tratta di casi specifici.

La presenza di una telecamera costituisce un altro di questi specifici casi, come ha sottolineato fra gli altri Thomas Grip di Frictional Games in un suo commento su Slender: The Arrival (Thomas KL, 2013). È uno di quei casi, dice, in cui la presenza di HUD non solo non danneggia l’immersività, ma al contrario contribuisce a rinforzarla. Un altro esempio da lui citato è il visore di Samus Aran in Metroid Prime (Retro Studios, 2002). Trattandosi del visore di una futuristica tuta da battaglia può credibilmente mostrare un gran numero di informazioni, ed è inoltre influenzato dagli elementi esterni come gocce di pioggia, attacchi elettrici e bava dei mostri. Nello specifico caso di Slender Man, inoltre, l’immersività di questo oggetto è accresciuta anche dalla lore sul personaggio che, come detto in precedenza, è legata all’impiego di apparecchiature tecnologiche (e ai loro malfunzionamenti).

Incertezza: il tremolio nella videocamera non è solo un mero effetto grafico che omaggia i mockumentary su Slender Man, poiché costituisce anche di un elemento di gioco, in quanto indicatore di prossimità del nemico. Un indicatore che risulta però volutamente vago: «How near is the Slenderman in Slender?» domanda Chris Pruett in un suo articolo (2012b) sull’importanza dell’incertezza nei videogiochi horror. Secondo Pruett limitare o rimuovere le indicazioni a schermo, in un videogioco horror, non contribuisce solo all’immersività, ma aiuta a offuscare i dettagli per rendere più spaventosa l’esperienza di gioco.

Pruett cita, come esempio in negativo, Dead Space (Visceral Games, 2008). Sotto il punto di vista dell’immersività questo gioco ha integrato piuttosto bene l’HUD, inserendo i diversi indicatori nella tecnologica tuta del protagonista, ma i dati forniti sarebbero, secondo Pruett, troppi, andando a ridimensionare la componente orrorifica del gioco: «Isaac’s life bar is attached to his back, his gun prominently displays the number of shots remaining, and he has a special gadget that shows him where to go whenever he is lost. This information is reassuring. In the heat of battle, we can rest easy if Isaac has full health; even a couple of direct hits aren’t likely to kill him. We know where we’re going, and how much ammo and health we have, at all times» (2012b).

Questa logica è applicabile a numerosi elementi di gioco (la salute dei nemici e quella del personaggio, il numero di colpi in canna, l’esatta efficacia di un oggetto di cura…), ma si rivela di particolare interesse soprattutto in relazione al rilevamento dei nemici. Tendenzialmente, in un buon gioco horror, la presenza del nemico deve essere suggerita ma non esplicitata, fino al momento della comparsa del mostro. I versi di uno zombie in Resident Evil, la radio gracchiante in Silent Hill e il tremolio nella telecamera di Slender Man sono tutti elementi visivi o sonori che lasciano intuire senza rivelare troppo. Un’interferenza indica la vicinanza di Slender Man, ma non indica quanto sia vicino, né da quale direzione stia arrivando.

Mediazione: laddove, in ogni attività videoludica, è presente la mediazione di uno schermo collocato fra il videogiocatore e il mondo di gioco, la fruizione di un let’s play su YouTube costituisce una sorta di mediazione schermica al quadrato. Con la presenza di una telecamera interna la mediazione diviene cubica: uno schermo separa avatar e mondo di gioco, un secondo separa il giocatore/youtuber dal proprio avatar e un terzo il fruitore del video dal giocatore/youtuber. Ma la “mediazione” è anche quella fra visione e nascondimento, i due poli su cui giocano molti survival horror, qui negoziata dalla telecamera.

Seguendo la logica dei filmati su Slender Man (i quali attingono a loro volta da una lunga tradizione di found footage) la creatura non può essere vista o registrata, se non di sfuggita (a causa della pazzia e dei disturbi nelle riprese), ma al tempo stesso si cerca di registrare tutto, per provare la sua esistenza o anche solo aver salva la vita. Una «Scan-and-search visuality» (Soderman, 2015: 313) in cui bisogna osservare (registrando) ovunque in cerca delle pagine disperse, evitando al tempo stesso di guardare Slender Man. Una “mediazione” che trova infine un corrispettivo nell’azione contemporanea dello youtuber, il quale con una differente videocamera osserva e registra, mosso da due spinte contrastanti: evitare il mostro per proseguire nel gioco ed essere inseguito da quest’ultimo per generare reactions da mostrare in video.

Continua nella quinta parte.

Bibliografia

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Lady Dimitrescu: fenomenologia di una vampira

Alcina Dimitrescu. La ‘vampirona’ di Resident Evil Village che ha attirato l’attenzione di tutti fin dalla sua prima comparsa. Un personaggio atipico, sicuramente, su cui permangono pareri contrastanti. La sua presenza è solo una commercialata irrispettosa per la tradizione horror? Il mondo è impazzito e Resident Evil Village riscontra un successo clamoroso solo per Lady Dimitrescu? Oppure, in realtà, c’è dietro qualcosa di più?

La seguente riflessione è nata in seguito alla lettura di differenti articoli, tutti più o meno incentrati sull’improvvisa ‘dimitrescumania’ e che cercavano in qualche modo di fornire spiegazioni. Queste ultime si rivelavano però più dichiarate nel titolo (con tutte le varianti del “ecco perché internet impazzisce per la vampira gigante”) che effettivamente spiegate. A parte qualche cenno all’immaginario da “mistress” che potrebbe evocare Alcina Dimitrescu, quel che ho trovato sono più constatazioni che spiegazioni.

Che siano emersi numerosi contenuti memetici su di lei è una conseguenza di qualche altra cosa, non è il motivo del suo successo. Bisognerebbe, semmai, ragionare su quali sono le caratteristiche che la rendono un personaggio agevolmente memetico. L’immaginario sadomaso e le fantasie di sottomissione possono essere uno spunto, in tal senso, ma da sole non bastano. Altrimenti Nana e Kaoru sarebbe il manga più letto e più memificato del pianeta.

Di seguito si parlerà di vampiri, ma anche di fiabe, di orchi e principesse, di monster girls, di viralità e, non da ultimo, di ciò che caratterizzava i primi Resident Evil.

Sembra ovvio da dire, ma seguiranno spoiler, per cui leggete consapevolmente.

Piccolo aggiornamento: il 31 maggio 2021 è stato pubblicato su Everyeye.it il seguente articolo: Alcina Dimitrescu di RE Village: la performance e l’interesse dei fan. Al suo interno ho idealmente proseguito il discorso fatto qui, per cui leggete anche quello per una panoramica più ampia.

Alcina Dimitrescu in "Play in Bio Village"

Essere o non essere vampiri?

Fin dalla sua prima comparsa, Lady Dimitrescu ha sollevato diversi quesiti sulla sua natura. È una vampira? Oppure no? E, se non è una vampira, che cosa sarebbe?

La risposta più semplice, che però di certo deluderebbe chiunque, sarebbe dire che Alcina Dimitrescu è una B.O.W. (Bio Organic Weapon) al pari del 99% dei nemici di Resident Evil. Non è una risposta sbagliata: è una normalissima donna trasformata in un’arma vivente. Si potrebbe poi cavillare sul fatto che le uniche B.O.W. propriamente dette siano quelle sviluppate dall’Umbrella Corporation, ma la sostanza non cambia. Anche perché, in ogni caso, è una risposta del tutto insoddisfacente.

Un’altra, semplicissima ma poco soddisfacente risposta, sarebbe questa: nella serie di corti Play in Bio Village Lady Dimitrescu è presentata come un vampiro (吸血鬼). O meglio, viene presentata come tale la sua marionetta, chiamata Domioneesan, in questa sorta di parodia di uno show per bambini. Per cui qualche dubbio potrebbe restare.

È bene anche ricordare cosa abbiano detto i creatori del gioco, a proposito delle fonti di ispirazione di maggior rilievo per questo personaggio. Come è possibile leggere su IGN, «Takano began with the concept of a “bewitching vampire,” and says they drew inspiration from figures like famed 16th-century Hungarian noblewoman and serial killer Elizabeth Báthory, the Japanese urban legend Hashaku-sama, and Anjelica Huston’s Morticia Addams» (Kim, 2021).

A parlare è Tomonori Takano, l’art director di Resident Evil Village. Poco prima, nello stesso articolo, è possibile leggere che erano partiti con un generico concept da castello dei vampiri, ma volevano evitare le solite rappresentazioni di questi mostri.

Il vampiro come punto di partenza c’è, insomma, sebbene se ne si voglia discostare. Ma qui emerge già il primo elemento al quale occorre prestare molta attenzione: da quale versione del vampiro ci si sta discostando? Da quella mainstream, ovvero da quel vampiro fortemente tipizzato che è saltato fuori con Bram Stoker e, soprattutto, tutti i film e i prodotti culturali sul Dracula di Stoker. Perché anche qui ci sarebbero già parecchie differenze.

Ora, diversi articoli si sono affrettati a dare un verdetto negativo, sulla ‘vampiritudine’ di Alcina Dimitrescu, semplicemente perché non segue i basilari e condivisi canoni post-stokeriani. Alcina si riflette negli specchi. Non teme la luce del sole (le sue figlie temono il freddo, ma non è un tratto particolarmente vampirico, anzi). Non ha bisogno di dormire in una bara e/o in un particolare tipo di terreno. Quasi sicuramente ignora croci, aglio, acqua santa e tutto il corredo di oggetti apotropaici e benedetti. Non dovrebbe avere nessun problema nell’attraversare corsi d’acqua (altrimenti non avrebbe senso il fiumiciattolo davanti all’entrata del suo castello). Si potrebbe avere qualche dubbio sulla sua capacità o meno di entrare nelle case altrui (un vampiro può farlo solo se esplicitamente invitato), ma è più probabile che abbia difficoltà per la bassezza delle porte, che non per insormontabili limitazioni di carattere interno.

È un discreto elenco. C’è chi ha ‘bocciato’ Alcina Dimitrescu come vampira con molto meno. Ma la faccenda è un po’ più complicata di così.

Per cominciare, non esiste solo il vampiro stokeriano. E non si sta parlando di cose come i vampiri di Twilight: sono sempre derivazioni di quel modello lì, che viene semplicemente reso più amichevole, glitterato e belloccio.

Si parla dei vampiri pre-stokeriani e di gran lunga antecedenti (per cui non Carmilla di Le Fanu, che arrivò poco prima). Bisognerebbe fare una verifica anche su di loro, per vedere se possano condividere una qualche parentela con Alcina Dimitrescu.

Il libro di Tommaso Braccini (2011) ne elenca parecchi, precisando anche come non sempre sia agevole isolare i vampiri da altre forme di non morti. Vale la pena inventariarne alcuni.

C’è in primo luogo tutta un’ampia sequela di legami fra eretici e morti irrequieti. Come il caso del tympaniaios, che letteralmente significa “gonfio come un tamburo”: cadaveri dal ventre rigonfio, che si troverebbero in questo stato a causa della scomunica e che sono temuti dalla popolazione locale. Decisamente non è il caso di Alcina Dimitrescu, sebbene i solerti artisti di DeviantArt l’abbiano rappresentata anche più volte con una pancia prominente, sulla scia di più di un feticismo. Ma nulla di lontanamente canonico. È anche interessante sottolineare come una delle possibili origini etimologiche proposte per il termine vampiro sia proprio in un gruppo di termini che indicano il pancione delle persone obese. Sarebbe un ottimo spunto, se si stesse parlando del Duca.

Segue lo stoicheio, il morto guardiano. Una persona sacrificata e sepolta nelle fondamenta di un edificio, di cui diviene il custode. Anche qui, il parallelismo non è certo ottimale. Si potrebbe dire che Alcina sia la guardiana del castello, ma non è stata certo creata da Madre Miranda con un simile scopo. Sarebbe stato un what if interessante, se Madre Miranda avesse creato ciascuno dei Lord come custode di un posto. E magari avrebbero lottato fra loro come facevano, durante le notti, gli stoicheia guardiani di chiese rivali (Braccini, 2011: p. 109). Ma, appunto, è solo un what if che nulla ha a che vedere con Resident Evil Village. Chi cercasse una applicazione contemporanea di un concetto analogo potrebbe ben più utilmente leggere Eternal War di Livio Gambarini, con i suoi spiriti guardiani di famiglie e luoghi in continua lotta.

E che dire del lampasma, il non morto che si trasforma in fuoco fatuo? Qui ci si ricollega un po’ alla tradizione stokeriana, visto che i fuochi fatui appaiono all’inizio di Dracula. «Una volta la fiamma è apparsa così vicina alla strada che anche nell’oscurità che ci circondava ho potuto scorgere i movimenti del cocchiere. Si è diretto rapidamente verso il punto in cui si levava la fiamma azzurra – doveva essere molto fioca, perché non mi pareva che lo spazio intorno ne fosse illuminato – e raccogliendo alcune pietre, le ha disposte in un certo modo» (Stoker, 2004: p. 12). Ma in ogni caso si rimane ben lontani da Lady Dimitrescu. Anche altri termini, come l’anakaithoumenos (il morto trovato seduto) sono da scartare.

C’è tuttavia almeno una considerazione degna di nota a proposito del vrykolakas e di tutte le sue varianti (vurvolak, vr’kolak, ecc.). Le storie sui vrykolakes – sottolinea sempre Braccini – sembrano i classici racconti di lupi mannari, di quelli che risalgono fino al Satyricon di Petronio e ancor prima. C’è una connessione, fra queste due figure. E ben prima che arrivassero Underworld e i giochi di ruolo.

«In molti casi, pare che tra le due entità vi sia una sorta di stretta affinità. Nella regione greca dell’Elide, ad esempio, si riteneva che si trasformassero in vrykolakes coloro che avevano mangiato la carne di una pecora uccisa da un lupo […]; presso gli Slavi, inoltre, era opinione comune che coloro che in vita erano stati lupi mannari, dopo la morte divenissero vampiri […]. In Ucraina si pensava che il vampiro fosse il frutto dell’empia unione di una strega con un lupo mannaro […] e in Montenegro si credeva che ogni vampiro fosse obbligato a trasformarsi periodicamente in lupo» (Braccini, 2011: p. 113).

Qui si può perlomeno aprire un ragionamento. Lo stesso trattamento che ha trasformato numerose persone in dei lycan ha reso Alcina Dimitrescu la ‘vampira’ che è. Per cui c’è anche qui l’affinità di cui parla Braccini.  È sufficiente una cosa del genere per attribuirle lo statuto di vampira? Decisamente no, ma tutto ciò consente di recuperare pure la tradizione stokeriana, dove era altresì presente questo nesso fra vampiri e lupi. A cominciare da quella frase del Conte Dracula, divenuta giustamente nota: «mentre ero tutto intento ad ascoltare, mi è parso di udire giù nella valle l’ululato di molti lupi. Gli occhi del Conte scintillavano mentre diceva: “Ascoltateli – i figli della notte. Ascoltate la loro musica!“» (Stoker, 2004: 17). Un apprezzamento che si rivela anche un controllo sulla specie e una capacità metamorfica.

Si è a un punto morto. Ad accomunare i vampiri e Lady Dimitrescu sembrerebbero esserci solo l’ematofagia, un generico legame con i mannari e una dimora ‘vampiresca’. E nemmeno l’ematofagia è un argomento solido. Vi sono vampiri pre-stokeriani poco o nulla interessati a nutrirsi di sangue umano, e ci sono al tempo stesso creature ematofaghe che non c’entrano nulla coi vampiri. E giusto per non farsi mancare nulla, in termini di complicazione, le descrizioni di Alcina Dimitrescu dicono che lei si nutre anche di carne umana. Il che è assai poco vampiresco.

A fronte di questo guazzabuglio, molti hanno trovato rifugio e conforto nell’altra creatura citata da Takano, la Hashaku-sama. Sentenziando, così, che la faccenda è risolta: Lady Dimitrescu non è una vampira, è una rivisitazione dell’Hashaku-sama.

Ma anche in questo caso la situazione è un po’ più elaborata.

Hachishaku-Sama, o Hashaku-sama (sarebbe Hasshaku-sama, in verità, ma non so se la variante con una S sola dell’articolo di IGN sia un errore o una alternativa ugualmente valida, seppur minoritaria). Nasce da una leggenda urbana originariamente apparsa su Futaba Channel (o 2chan che dir si voglia), in cui si parla di una donna alta più di due metri. Una donna che solitamente indossa un lungo abito bianco e un cappello a tesa larga. Il che conferma la – peraltro dichiarata – ispirazione, ma non risolve il quesito: Alcina Dimitrescu è una Hasshaku-sama? È la stessa questione che si è posta sopra: è pacifico che nello studio del suo personaggio ci si sia ispirati ai vampiri, ma ci si trova poi in dubbio nel doverla definire una vampira oppure no.

La Hachishaku-Sama è un fantasma. In mancanza di una tradizione strutturata intorno alla sua figura è difficile darle una collocazione esatta, ma potrebbe essere inseribile nel novero delle onryō, i fantasmi vendicativi, quasi sempre femminili. I due esponenti probabilmente più noti sono Sadako di Ringu e Kayako di Ju-on, ben note anche al di fuori del Giappone grazie ai remake occidentali delle pellicole (su tali adattamenti si rimanda a Marak, 2015). Anche escludendola dalle onryō, la Hachishaku-Sama è sostanzialmente un fantasma stalker: osserva a lungo le persone che ucciderà, possono passare giorni, se non mesi, prima che faccia una mossa. E nel frattempo osserva il malcapitato e mormora un inquietante “po-po-po-po”. Non è un caso che sia considerata una sorta di Slender Man giapponese. Entrambi i personaggi sono materiale da creepypasta e sono due alti stalker.

Ci si sta allontanando parecchio da Lady Dimitrescu. Oltre a non essere una presenza fantasmatica, Alcina non ha nemmeno questa natura di osservatrice silenziosa. Quando vede Ethan inizia a inseguirlo, non resta a osservarlo da lontano. E, per dovere di cronaca, va anche detto che sono molte più le situazioni in cui è lei a essere osservata da Ethan (e dal giocatore).

C’è anche chi ricollega la Hachishaku-Sama a uno yōkai di ben più antica tradizione, la Taka-onna, una donna capace di allungare le gambe, che ama spiare dentro le case, soprattutto nei quartieri di piacere. Una donna brutta e con gambe lunghissime che spia i rapporti amorosi altrui e sottrae le energie sessuali degli uomini. Non è proprio una descrizione calzante, per Lady Dimitrescu, nemmeno nelle sue innumerevoli declinazioni fanmade da mistress.

Scartando anche la Hachishaku-Sama, allora, bisogna uscire al di fuori dai riferimenti indicati da Takano. Le altre due fonti di ispirazione che cita, Morticia Addams ed Elizabeth Báthory sono due esseri umani e non aiutano in questa etichettatura di Alcina Dimitrescu.

Si può provare con altre creature. Ci sono le lamie, per esempio. Non quelle oggi comunemente intese, creature metà donna e metà serpente, ma le lamie come «donne molto belle, alte, dalle forme avvenenti. Spesso stanno in agguato vicino a ruscelli o fontane, pettinandosi i lunghi capelli biondi. Solo avvicinandosi si può scoprire che i loro piedi non sono umani. […] In un racconto proveniente da Zacinto la lamia, quasi come una sorta di orco, scegli gli uomini più grassi e li arrostisce nel forno della sua casa» (Braccini, 2012: posizione Kindle 770-776).

Bella, alta e delle forme avvenenti, che brama non solo il sangue ma anche la carne umana. fin qui è una perfetta descrizione di Lady Dimitrescu. C’è il dettaglio dei capelli biondi, ma potrebbe essere un elemento accessorio. I piedi sono un problema maggiore. È difficile immaginare Alcina con «piedi di bronzo [oppure] zampe di animale, per esempio di bue, di asino, di capra» (Ivi). Così come è difficile figurarsela mentre irretisce gli uomini che attingono l’acqua alla fonte sotto il sole di mezzogiorno.

E se Alcina fosse un’orchessa? Ora, se si hanno in mente la moglie di Shrek e gli Orki di Warhammer una simile idea suona fin da subito insensata, ma bisognerebbe provare a pensarla come orchessa fiabesca.

Si può nuovamente prendere Braccini (2013) come guida, in questo tentativo definitorio. Il che non è semplice, perché significa gettarsi in un ginepraio ben peggiore rispetto ai vampiri: «se dunque risulta subito chiaro ciò che l’orco fa […], è invece molto più difficile capire quel che l’orco è. Per quanto spesso, soprattutto nelle fiabe, presenti tratti sovrumani (è gigantesco, ha un fiuto acutissimo che gli permette infallibilmente di percepire la presenza di “cristiani”), non sempre ne presenta anche di soprannaturali; persino l’aspetto fisico è abbastanza nebuloso» (Ibid, p. 18).

Alcuni elementi vanno subito nella direzione giusta. Il gigantismo dell’orco, il suo desiderio di carne e sangue, ma anche la sua ricchezza (tanti orchi vivono in bellissimi palazzi, o comunque nascondono tesori). E c’è pure la dabbenaggine. Forse Alcina Dimitrescu è una donna di fino intelletto, ma nel suo scontro con Ethan non si dimostra proprio brillante. Sembra lo schema di base delle fiabe della tipologia I bambini e l’orco: «un bambino viene rapito dall’antropofago, feroce ma stupido, che lo vuole portare a casa per mangiarlo; la preda riesce ad evadere e, approfittando della dabbenaggine del predatore, lo fa morire» (Ivi, p. 135).

Immaginando Ethan come il “bambino” della situazione, la descrizione è calzante. Alcina e le sue figlie, accecate dall’ira e superficiali, vengono eliminate una dopo l’altra nonostante la loro superiorità fisica. E c’è anche un’ampia tradizione di orchi che muoiono precipitando da tetti, torrioni e simili. Ethan sconfigge l’orchessa che voleva mangiarlo e prende il suo tesoro.

È la genericità stessa dell’orco ad aiutare, in questo senso, nel tentare una sua applicazione alla Lady. L’orco è un’entità generica, con molti ‘parenti’ fra altri spauracchi per bambini. Per esempio la Befana, che una volta non era una cara vecchina, ma una creatura temibile, che poteva bucherellare e tagliuzzare (tornano alla mente gli artigli di Lady Dimitrescu?) i bambini, o anche mangiarseli (su questo si veda sempre Braccini, 2013, ma anche Baldini e Bellosi, 2012).

Ci sono però anche dei problemi. Orchi e orchesse sono noti per la loro bruttezza, sono trasandati, possono anche essere ricchissimi ma appaiono malvestiti e grezzi. Alcina Dimitrescu è invece una signora piacente, ben vestita, raffinata e composta anche nella sua collera. E non ha nemmeno la decrepita vecchiezza delle varie Befane. Anche il suo olfatto deve essere assai poco orchesco, perché altrimenti saprebbe sempre che il ‘cristianuccio’ Ethan è vicino a lei.

Tassonomicamente, allora, anche parlare di un’orchessa non è il massimo. E forse alla fine la soluzione migliore resta proprio quella di definirla una vampira. Una vampira gigante, per di più, il che la rende duplicemente non umana. Riesumando le argomentazioni di Benedetto Varchi (1560) e in particolare Se i Giganti si trovarono mai, o si truovano hoggi in luogo alcuno, sulla scorta di illustri auctoritates del passato egli disse che per umani e animali ci sono delle grandezze stabilite. Per cui, prosegue il Varchi, se mai in passato vi furono dei giganti, questi non dovevano essere umani, poiché la ‘soglia’ di altezza di questi ultimi è poco sopra i due metri.

Tuttavia, se ci si sposta dal “cos’è” al “cosa fa”, la categoria dell’orco è invece indicativa del suo ruolo. Soprattutto in una prospettiva fiabesca, un territorio che per tradizione appartiene ben più a orchi e giganti che ai vampiri.

Quella fiaba di Resident Evil Village

Resident Evil Village è una fiaba. Lo dichiara il videogioco stesso, in maniera assai didascalica, al suo avvio, con la fiaba che viene letta alla piccola Rose. Al suo interno è contenuta la prefigurazione dei cinque boss del gioco: Alcina Dimitrescu, Donna Beneviento, Salvatore Moreau, Karl Heisenberg e Madre Miranda. Al pari della fiaba Village of Shadows, la storia del gioco è temporalmente collocata solo per la tecnologia che utilizzano i personaggi, ma nel suo andamento e nella sua struttura è un qualcosa che rimane al di fuori di un cronotopo definito.

«Lontano lontano, all’estremità del mondo, al di là delle Montagne dei Sette Cani, c’era una volta un re…, oppure Alla fine del mondo, dove il mondo termina con una palizzata, oppure Nel tempo in cui Dio camminava ancora sulla terra… Vi sono molti modi poetici per esprimere questo “nessun luogo” o questo “c’era una volta” che ora, seguendo Mircea Eliade, molti studiosi di mitologia chiamano l’illud tempus, questa eternità e assenza di tempo, quest’ora e sempre» (Von Franz, 2018b: p. 35). Certo, il paesaggio di Resident Evil Village è un po’ più definito di così, ma anche questo non è un elemento di particolare stupore: nella fiaba contemporanea c’è stata una progressiva sofisticazione della componente paesaggistica (Cambi, 2006: p. 19). Per cui, se si considera questo videogioco una fiaba contemporanea, si è perfettamente in linea.

È il regno del “c’era una volta” ed è con quest’ottica che bisognerebbe approcciarsi ai vari incontri del gioco. Ponendo così la questione, tuttavia, si ha la solita dichiarazione di intenti: si dice che Resident Evil Village è una fiaba, perché appare così, ma nessuno va poi a dire perché sia una fiaba. E non è sufficiente che inizi con la disneyana apertura di un libro (e si chiuda allo stesso modo) per poterla definire tale.

Considerando il tema dell’articolo, si prenderà come caso particolare l’avventura di Ethan a castel Dimitrescu, ma sono prima necessarie alcune premesse, che possono essere introdotte già parlando del videogioco in questione.

All’inizio del gioco c’è Mia (in realtà non è lei, ma lo si scoprirà solo molto più avanti) che legge una fiaba intitolata Village of Shadows alla piccola Rose. Ethan è dubbioso, riguardo alla scelta, pensa che sia una storia troppo spaventosa per una bambina. E nel dire ciò ha al tempo stesso torto e ragione, a proposito di quella che è una grande verità delle fiabe. Esse non sono destinate ai bambini. Non nascono come tali: «fin verso al XVII secolo le fiabe non erano riservate ai bambini, ma venivano raccontate e ascoltate dagli adulti dei ceti popolari, da boscaioli e contadini» (Von Franz, 2018a: p. 16).

Per cui sì, prendere una fiaba che non sia stata edulcorata e ‘disneyficata’ significa gestire del materiale narrativo che ascoltavano anche gli adulti. L’errore è quello di evitare la paura. Una fiaba dovrebbe essere uno strumento per riconoscere le proprie paure e capire come gestirle, ma trovandosele davanti con chiarezza. Perché «le persone che non hanno paura non sono persone responsabili, perché la paura è parte integrante della vita» (Denti, 2007: p. 243).

La fiaba che Mia sta leggendo è un po’ particolare negli incontri, ma non nella sua struttura. I donatori e i rispettivi doni sono atipici, ma il loro numero è in linea con molte fiabe: sono tre. I doni, così come le prove, tendono a seguire questo numero qui. E infatti le deviazioni sono motivo di sottolineatura, come faceva qui von Franz, a proposito di una fiaba: «quattro compiti: il tipico numero della totalità! Per chi conosce il mondo della fiaba, ciò apparirà inconsueto, poiché in genere i compiti sono tre. Tuttavia vi è sempre un quarto elemento, ma si tratta di un evento e non di un compito» (2018a: p. 46).

In questo, Village of Shadows è alquanto canonico: ci sono tre doni seguiti da un evento, cioè l’incontro col cavallo meccanico. E anche nell’avventura Karl Heisenberg, il quarto lord, mostrerà un approccio piuttosto diverso dagli altri. In quel caso egli sarà l’unico donatore spontaneo del suo “dono”, mentre gli altri tre lord lo difenderanno strenuamente. Il che è comprensibile, visto che Ethan non è il protagonista della fiaba Village of Shadows. È il protagonista di un’altra fiaba, che inizia con il suo risveglio nel bosco. In quel momento è entrato in una dimensione ‘altra’ e fiabesca. Se, alla fine del gioco, si fosse risvegliato in poltrona, scoprendo di aver sognato tutto, sarebbe stato un finale disgustosamente deludente, ma avrebbe avuto perfettamente senso.

Fatte queste premesse, cosa accomuna il viaggio di Ethan alle fiabe? Moltissimi elementi, alcuni dei quali totalmente ignorati. Come la perdita del mignolo sinistro: «nel racconto di fate accade molto sovente che l’eroe perda un dito nella capannuccia, e precisamente il mignolo della mano sinistra» (Propp, 2017: p. 146). E poco dopo parla anche di mani mozzate che ricrescono. I maltrattamenti subiti dalle mani di Ethan Winters sono divenuti ormai proverbiali, ma sono anche un segno iniziatico.

E la perdita del dito (anzi, delle due dita) non è che il primo passo. Il primo luogo verso cui si dirige, dopo l’esplorazione del villaggio, è castel Dimitrescu. Va incontro alla sua prima prova, ma anche all’unico suo vero aiutante: il Duca. Il grasso mercante ha qualcosa del «Mangione», una tipologia ricorrente di compagni dell’eroe (Propp, 2017, p. 507). Lo si incontra appena fuori dal castello. Che, come ogni castello che si rispetti, «è ben profilato sul colle, ben tagliato contro lo sfondo del cielo, su di un villaggio di case addossate alle pendici. Ogni iniziativa deve muovere di lassù, mentre nel paese tutti sono impotenti. Nessuno vede o ode quelli del castello, mentre nel castello si sa tutto quello che in paese si dice e si fa» (Mordini, 2007: p. 39).

Castel Dimitrescu è ricco di eventi fiabeschi. Alcuni diretti e alcuni capovolti. Un esempio di capovolgimento è il motivo della principessa reclusa che viene però raggiunta e ingravidata da uno spiffero di vento (Propp, 2017: p. 67), che ha qui come corrispettivo la fine delle tre ‘principessine’, le figlie di Alcina, impossibilitate a uscire e uccise dal gelido vento esterno.

La stessa Alcina, in una fiaba nemmeno troppo differente da questa, potrebbe benissimo passare da orchessa a principessa. Restando esattamente com’è. È un’affermazione che suonerebbe un po’ strana, se si hanno in mente solo le storie Disney, ma le fiabe sono ricolme di principesse assassine. La principessa è «un essere insidioso, vendicativo e malvagio, sempre pronto a uccidere, ad annegare, a storpiare, a derubare il fidanzato, e il compito essenziale dell’eroe […] consiste nel domarla» (Propp, 2017: p. 475). La sua malvagità non sarebbe in contraddizione col ruolo di principessa, e nemmeno la sua natura inumana.

Fiabe con un/a promesso/a sposo/a mostruosi e pericolosissimi abbondano. Come Re Lindworm (o Principe Lindworm), con un orribile drago che chiede in sposa fanciulle bellissime, ma la notte le divora. Quando però è il turno dell’eroina, lei indossa dieci camicie, e ogni volta che se ne toglie una chiede al drago di rimuovere uno strato della sua pelle. Quando il drago è ridotto a una massa sanguinolenta lei lo percuote con rami di nocciolo, lo immerge nel latte dolce, lo avvolge nelle nove camicie e si addormenta stringendolo a sé. Al risveglio è abbracciata a un bellissimo principe, libero dal maleficio che lo aveva colpito. Una “storia di redenzione” come ce ne sono tante, nelle fiabe, in cui «questa parola si riferisce in particolare alla condizione in cui qualcuno che è stato maledetto o è caduto vittima di un incantesimo, mediante determinati eventi, viene, per così dire, ‘liberato’; si tratta quindi di un concetto assai differente da quello cristiano» (Von Franz, 2004). Redenzione del principe/principessa, ma anche dell’eroe/eroina che devono averci a che fare.

L’ultimo esempio che è stato appena fatto ha un drago, maschio, ma ci sono anche diverse dragon maidens, nelle fiabe, nella letteratura medievale e altrove. « The dragon maiden is a woman who has been transformed into a dragon or serpentine creature, predominantly against her will. She sometimes takes on the form of a dragon or serpent entirely, with small details such as eyes or lips revealing her humanity, but also at times has the form of a dragon or serpent from the waist down, whilst her upper half remains human. She is, therefore, an animal-human hybrid monster» (Zeldenrust, 2011: p. 7). O anche: «Among the different traditions one may observe a constant pattern: a princess is turned into a serpentine or draconic creature by a sorcerer, waiting for the knight’s kiss to be disenchanted (Quarti, 2015: p. 69).

Ora, che la trasformazione finale di Lady Dimitrescu somigli a un drago (per quanto un drago in linea con Resident Evil, è chiaro) è evidente. Non diviene un pipistrello gigante o qualche altra cosa vampiresca: diventa un drago. Ma il dettaglio del busto umanoide che continua a spuntare dalla sua schiena è anche più significativo, alla luce di quanto si è appena detto coi testi citati. C’è anche la maledizione materna (di Madre Miranda) da spezzare. Sarebbero serviti davvero pochi elementi divergenti per trasformare l’andamento di tutta la storia. In particolare se ci fosse stato un eroe differente e, al posto di Ethan Winters, marito fedele, fosse giunto a castel Dimitrescu un qualche ‘principe’ desideroso di trovare la ‘principessa’ sotto alle pelli del ‘drago’.

Non è stato così, ovviamente, e Lady Dimitrescu è l’orchessa della situazione. In quanto tale, come tutti gli orchi fiabeschi che si rispettino, è indegna di redenzione. È il guardiano della soglia che l’eroe deve sconfiggere per prendersi il tesoro che custodisce. Lei e gli altri lord sono i ‘garanti’ del percorso eroico di Ethan Winters, ne scandiscono le tappe. Solo sconfiggendoli tutti quanti egli può dirsi degno di poter affrontare Miranda e salvare Rose.

Questo, in fondo ozioso, gioco di ipotesi ha però rivelato quella che è la prima e più importante caratteristica del successo di Lady Dimitrescu.

Basta cambiare pochissimi elementi per modificare di volta in volta il suo ruolo.

Qui lo si è volutamente fatto cominciando con un esempio poco o nulla frequentato, a livello discorsivo, ma è applicabilissimo a tutto ciò che ruota intorno a Lady Dimitrescu.

Un altro esempio non comune: basta pochissimo per trasformare lei e gli altri lord nei classici generali d’armata che si vedono nelle storie fantasy giapponesi. Come il manga Dai – La grande avventura o il videogioco Final Fantasy IV (azzarderei anche i seguenti abbinamenti: Scarmiglione/Beneviento, Cagnazzo/Moreau, Barbariccia/Dimitrescu e Rubicante/Heisenberg). La loro riunione in presenza di Madre Miranda, quando dibattono sul destino di Ethan, evoca con potenza quell’immaginario lì, coi suoi conciliaboli di assurdi e grotteschi generali del male, uno più bizzarro dell’altro.

Naturalmente non ci si è mossi tanto in simili direzioni. Ciò che il fandom ha prodotto sono in larga misura feticizzazioni e sessualizzazioni di Alcina Dimitrescu. Ma anche qui è interessante osservare meglio il fenomeno.

La perfetta monster girl

Elegante, bellissima e mostruosa.

Lady Alcina Dimitrescu sarebbe perfetta per una qualsiasi storia a base di monster girls.

Si parla di monster girls principalmente a proposito di manga e anime erotici (talvolta esplicitamente pornografici) che ruotano attorno alla presenza di ragazze-mostro. Il loro statuto non è di semplicissima definizione (ne avevo parlato in Toniolo, 2017, per chi fosse interessato ad approfondire), ma si possono impostare alcuni parametri. Queste monster girls devono essere sufficientemente umane e belle da risultare sensuali, il che esclude tutte le mostruosità femminee prodotte, per esempio, da Junji Itō. Ma al tempo stesso devono avere caratteristiche mostruose ben identificabili, e che risultino sfruttabili come pretesto per mettere in campo numerose variazioni sulle situazioni eroti-comiche dell’ecchi (Toniolo, 2021a).

Alla base ci sono tutti quei giochi di equivoci, situazioni impreviste e gag che portano i protagonisti di questi manga e anime a sbirciare sotto le gonne, a trovarsi chiusi in un camerino con ragazze semivestite e amenità del genere. Ma i corpi mostruosi incrementano considerevolmente le possibilità ideative dietro a queste situazioni eroti-comiche. Ricucire il seno di una zombie, soffocare nella generosa scollatura di una oni, trovarsi stritolati dall’abbraccio di una lamia e molto altro ancora.

La casistica è ampia e gli esempi possibili sono numerosi: Ghost Inn – la locanda di Yuna (Tadahiro Miura, 2016-2020), Monster Girl (Kazuki Funatsu, 2014-2017), Tales of Wedding Rings (Maybe, 2014 – in corso), Creature Girls. A Hands-on Field Journal in Another World (Kakeru, 2017 – in corso) e molti altri ancora. Ce ne sono anche alcuni in cui la componente erotica è ridotta al minimo, come Nurse Hitomi’s Monster Infirmary (Shake-O, 2013 – in corso), ma nel complesso è una componente piuttosto rilevante. Il più noto esponente del genere è probabilmente Monster Musume (Okayado, 2012 – in corso), una storia di genere harem in cui il protagonista convive con diverse monster girls, tutte innamorate di lui.

Alcina Dimitrescu si inserirebbe benissimo in una storia del genere. È una bella donna, ma possiede anche delle caratteristiche mostruose variegate e più che sfruttabili in un ampio numero di situazioni eroti-comiche. Sfruttabili e in realtà già sfruttate in quel magmatico calderone di fanart e fanfic che si trova in giro. L’ematofagia, in primo luogo. In Monster Musume ci sono ben quattro personaggi succhiasangue e questa loro caratteristica apre facilmente a situazioni intime. Poi il gigantismo. Anche qui, in Monster Musume abbondano le monster girls altissime e giunoniche, come per esempio l’ogre/oni Tionishia. Infine gli artigli retrattili. Probabilmente l’aspetto che più facilmente si lega all’immaginario sadomasochistico e che trova a sua volta corrispettivi in Monster Musume come l’aracnide Rachnera, perfetta mistress con artigli affilati.

Un solo personaggio racchiude tutto questo e molto altro. Con piccole modifiche a quello che è il suo ruolo canonico si ottengono tante Dimitrescu adatte per qualsivoglia contesto. Dalla sadica che artiglia e calpesta i masochisti alla gigantessa buona che ti soffoca fra i suoi seni. In termini percentuali più la prima della seconda, come intuibile, ma non mancano le Dimitrescu affettuose, così come non mancano all’appello un gran numero di feticismi.

Ci vuole appena un secondo per immaginarsi un Ethan Winters desideroso di farsi punire da Alcina e dalle sue tre figliole. Così come ci vuole un attimo a tirar fuori una variante erotica, e anche più coerente col personaggio di Ethan, della storia di Resident Evil Village. Con le Dimitrescu che lo tentano con piaceri erotici di ogni sorta, ma lui resiste stoicamente, fedele alla moglie e alla missione. Un po’ – di nuovo – come Kimihito Kurusu, il protagonista di Monster Musume, perennemente immerso nelle tentazioni, da cui però rifugge sempre con ascetica resistenza. O, ancora, ci vuole poco a immaginare un Ethan che passa al contrattacco per ‘punire’ a sua volta l’imponente vampira. Il video di Ethan che sculaccia Alcina con uno scacciamosche (Shirrako, 2021) ha guadagnato un gran numero di views in brevissimo tempo.

Lady Dimitrescu è la nuova Bowsette. C’è chi lo ha giustamente già sottolineato fin dalle sue prime apparizioni (Cinefra, 2021, per esempio). Anzi, è pure meglio, perché a differenza di Bowsette possiede una base canonica ma facilmente adattabile a numerosissimi contesti. Ed è anche meglio di personaggi di Dark Souls come Priscilla e Gwynevere, che soffrono per la carenza di interazioni con loro, e di una generale carenza informativa.

Lady Dimitrescu è anche la prima effettiva monster girl di Resident Evil. La saga ha visto donne bellissime e sensuali (come Ada Wong) e donne mostruose (come Lisa Trevor). Alcina Dimitrescu unisce alla perfezione entrambe le cose, ponendosi subito come un personaggio che ha tutte le migliori caratteristiche virali e memetiche.

Una novità, dunque, ma molto meno di quel che si potrebbe pensare.

I could be hurtful, I could be purple, I could be anything you like

Resident Evil è cambiato, ma nella sua anima più unica è rimasto sempre lo stesso. Una serie di videogiochi, cioè, certamente horror, ma che si prendono sul serio solo fino a un certo punto. Ci sono sempre stati personaggi e situazioni assurde. Il fatto stesso che gli eventi dei primi capitoli siano legati a un posto chiamato “città procione” dovrebbe far riflettere. Al pari dell’assurdità di certi suoi enigmi: a quanto pare le grandi menti dell’Umbrella Corporation avevano molto (troppo?) tempo libero, se si sono messe a ideare certi capziosi marchingegni.

Sono prodotti, i Resident Evil, che si prestano tantissimo per remixaggi, parodie, musical e qualsivoglia altra amenità possa venire in mente, in cui coinvolgere i personaggi della saga con un approccio fanmade. Nei primi anni di YouTube ci fu una considerevole diffusione di animazioni e video musicali coi personaggi di Resident Evil, che coinvolgevano non solo i diversi protagonisti, ma anche e soprattutto gli antagonisti, come Albert Wesker e William Birkin (per chi volesse approfondire, ho accennato alla cosa in Toniolo 2021b).

Wesker è pure un discreto monster boy. Abbastanza inumano da poter essere considerato tale, ma al tempo stesso affascinante, sensuale, e talmente assurdo da non poter essere preso sul serio. Ma Wesker è pure un personaggio da musical alla Rocky Horror Picture Show.

Esattamente come Lady Dimitrescu. Ci si aspetta che faccia qualcosa di sensuale e divertente al tempo stesso, che finisca coinvolta in qualche situazione in cui poter sfruttare le sue peculiarità fisiche per delle situazioni inusuali.  Ci sono tantissime opere fandmade a testimoniarlo. Capcom si è limitata a gettare qualche seme, che poi la community ha fatto germogliare in completa autonomia.

Lady Dimitrescu non è che un’ottima ‘nipote’ di Wesker e compagni. Un personaggio che sembra finito solo incidentalmente in un horror, e che potrebbe stare benissimo in mille altri prodotti. La si vede apparire e ci si aspetta che da un momento all’altro possa mettersi a cantare, rivelandoci che in realtà siamo nel musical di Resident Evil. La si vede apparire e ci si aspetta che Ethan la spii dal buco della serratura mentre lei fa il suo bagno di sangue, rivelandoci che in realtà siamo nella versione ecchi di Resident Evil. Così come sarebbe perfetta in un videogioco di lotta, o come giocatrice di pallacanestro (qualcuno sta immaginando uno Space Jam videoludico?) e tanti altri esempi proposti e raccolti in giro (per esempio Holmes 2021).

Lady Alcina Dimitrescu è un ritorno alle origini, insomma. Sembra paradossale e totalmente contrario a quel che potrebbe ritenere qualche purista, ma ha esattamente scatenato quella trasformatività creativa che in tanti avevano già legato ai personaggi dei primi Resident Evil. Fino a Resident Evil 4 questa tendenza è proseguita molto bene, poi c’è stata una interruzione. Si è parlato molto anche dei successivi episodi, talvolta nel bene e talvolta nel male, ma questa voglia di re-inventare i personaggi si era un po’ persa per strada. In certi casi davanti a new entries semplicemente blande, in altri a fronte di personaggi anche iconici ma poco malleabili. Le sperimentazioni sono altre, come la sezione a Villa Beneviento, molto apprezzata e ritenuta molto spaventosa (Marshall, 2021) ma più vicina allo spirito di altre serie di videogiochi, come Silent Hill, Clock Tower, Amnesia, ecc.

Invece Lady Dimitrescu, con le sue assurde figliocce, il suo castellaccio pieno di enigmi strampalati e la sua assurdità fa nuovamente vibrare certe corde. Riporta a una visione del videogioco come follia combinatoria e pastiche di cose per nulla realistiche, ma che adoriamo nella loro mescolanza innovativa. Una materia prima di ottima qualità, un diamante allo stato grezzo da plasmare come si desidera, in numerosissimi contesti. Persino seri. Persino filosofici. Non ci sono solo le sculacciate e i meme nella storia dei prodotti fanmade su Resident Evil.

Anche gli altri tre lord di Resident Evil Village sono molto interessanti, in tal senso. E non è un caso che Capcom stessa si sia mossa in questa direzione di ripensamento trasformativo, con i già citati corti Play in Bio Village, con i lord in versione pupazzosa che vivono una quotidianità da show per bambini. Fra i quattro, però, l’imponente vampira è sicuramente quella con le potenzialità maggiori.

Riemerge, con Lady Alcina Dimitrescu, la categoria calviniana della “leggerezza”, espressa nelle sue Lezioni americane, che tanto caratterizzava i primi Resident Evil. Quella sottrazione di peso che fa tendere verso il divertimento e l’ironia, che fa sopravanzare l’assurdo invece che sotterrarlo sotto la pesantezza pietrificante delle fin troppo inutilmente seriose ciarle contemporanee.

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ps: le mie pubblicazioni che ho citato sono tutte liberamente consultabili e scaricabili. Trovate qui i link.

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