Mese: Settembre 2021

Pascoli, i Poemi conviviali e l’esplorazione degli spazi videoludici

Pascoli e videogiochi. Un curioso binomio.

Io sono fermamente convinto che letteratura e videogiochi abbiano molto da dirsi. Anche quando questi due mondi non sono direttamente collegati, infatti, è possibile estrapolare tante riflessioni illuminanti dall’una e dall’altra parte. Fu questo lo spirito con cui andai al TEDx nel 2019 e scrissi alcune delle mie pubblicazioni accademiche e non (le trovate raccolte qui).

Per quanto possa essere banale, la letteratura e i videogiochi sono da sempre due grandi passioni della mia vita. E ho sempre amato molto le opere di Giovanni Pascoli. Opere che, per molti aspetti, sono quanto di più lontano potrebbe esserci dai videogiochi. Proprio per questo, però, hanno fatto nascere in me la scintilla che ha portato a quanto segue.

Pascoli, i Poemi conviviali e l'esplorazione degli spazi videoludici

Con questo articolo si vogliono indagare determinati effetti – spesso poco dibattuti – che possono produrre sui videogiocatori alcune forme di costruzione dello spazio videoludico, attraverso un confronto con alcune figure dei Poemi conviviali[1] di Giovanni Pascoli. L’operazione non intende né andare a riattualizzare i miti pascoliani (che già il poeta stesso aveva attualizzato rispetto alla sua contemporaneità)[2], né presentarsi come operazione legittimatoria dei videogiochi[3], ma suggerire come il pensiero di Giovanni Pascoli possa rivelarsi utile e fecondo anche per il campo dei game studies[4], soprattutto se venisse in futuro recuperato in forma più estesa e sistematica.

La componente spaziale ha sempre ricoperto un ruolo centrale nelle riflessioni sul videogioco, poiché le meccaniche su cui si basa il gameplay[5] devono essere calate in un determinato spazio, e pertanto dovranno prevedere un level design[6]. Espen Aarseth aveva sottolineato questa centralità[7], andando a tracciare le due componenti primarie che vanno a definire la spazialità interna al medium videoludico: «As spatial practice, computer games are both representations of space (a formal system of relations) and representational spaces (symbolic imagery with a primarily aesthetic purpose)» (Aarseth 2001, p. 163).

Il primo punto risulta direttamente collegato a un sistema di regole automatiche (che definiscono le modalità con cui interagire con il videogioco) e costituisce l’ossatura dell’interazione, ma è soprattutto quando opera in sinergia con il secondo aspetto che emergono esperienze significative. Sono infatti emersi nel corso degli anni numerosi studi dedicati per esempio alla funzione narrativa dello spazio videoludico[8] o all’importanza dei suoi elementi architettonici come continua negoziazione fra gameplay e rappresentazione visuale[9].

Più che la spazialità in termini generali, il fattore narrativamente più significativo risulta essere quello del viaggio all’interno degli spazi videoludici, che caratterizza soprattutto i cosiddetti videogiochi di ruolo (o GDR, per brevità)[10] e il vastissimo genere degli adventure[11]. Due generi in cui la componente narrativa è piuttosto sviluppata. Il viaggio all’interno dei loro ambienti digitali prevede una serie di competenze nella lettura delle loro componenti (Pearce 2008), le quali non sempre ricalcano mimeticamente il mondo reale[12].

Come ha sottolineato Melnic, «playing a video game is essentially a travelling experience, not only because it at least virtually transports the user to a different environment, but also because the aim of any game is often to traverse the latter, rather than accomplish static goals» (Melnic 2018, p. 24), e la componente interattiva consente differenti gradazioni di libertà esplorativa, a differenza dei viaggi sperimentabili in media differenti (Calleja 2011, pp. 73-75).

Per diversi aspetti si è sempre in presenza di una versione estesa e interattiva del tradizionale viaggio dell’eroe (Campbell 1949), osservando queste imprese dal punto di vista del personaggio protagonista[13], ma spostando la propria attenzione sul videogiocatore (che muove e controlla il suo avatar digitale)[14], emerge una prospettiva differente, spesso trascurata, e che può essere utilmente compresa tramite il ricorso ai personaggi dei Poemi conviviali, in particolare Alessandro e Odisseo. Il primo come immagine dell’esperienza nel primo approccio a un videogioco, il secondo come immagine del vissuto esperienziale durante una nuova partita a un gioco già terminato.

Ai confini del mondo

Quando Alessandro, giunto ai confini esplorabili del mondo, afferma che «Oh! più felice, quanto più cammino / m’era d’innanzi; quanto più cimenti, / quanto più dubbi, quanto più destino», sta esprimendo un pensiero riconducibile – seppur su una differente scala di grandezza – a quello di un videogiocatore che ha appena terminato un lungo viaggio virtuale, in cui ha investito un cospicuo numero di ore.

È giunto a «il Fine», intendibile – di nuovo, con la stessa ambivalenza di Alexandros (Sozzi 2008, p. 591) – sia come obiettivo ultimo della sua avventura sia come confine estremo del mondo. Dopo esser stato per lungo tempo continuamente sospinto a proseguire, senza sosta, di volta in volta attirato da nuovi traguardi, a un tratto si trova impossibilitato ad andare oltre. Per Alessandro «si profilano altri spazi in cui l’uomo però non può entrare» (Ibidem), quelli della superficie lunare, che non può essere raggiunta e conquistata[15]; il videogiocatore intravede altre terre, oltre i confini, che gli sono precluse perché non sono programmate per essere raggiunte, sono solo un profilo disegnato sullo skybox[16], un’illusione per far apparire il mondo di gioco ben più ampio del reale[17].

Eppure sono proprio il game design e il level design di questi videogiochi che spingono continuamente, attraverso suggerimenti visivi impliciti, verso un’esplorazione continua, incrementando al tempo stesso un desiderio di ritorno alla condizione precedente, al punto di partenza, a ciò che si è lasciato alle spalle. Non è infrequente, nei videogiochi, trovare indicatori a schermo che suggeriscano la direzione in cui muoversi: possono essere elementi extradiegetici (per esempio delle frecce sulla minimappa: Gekker 2016) o possono venir diegetizzati in vario modo (per esempio con un personaggio che accompagna il protagonista e gli indica dove andare: Kato e Bauer 2019), ma può trattarsi anche di elementi ambientali o architettonici.

Mostrare l’ambiente in lontananza può avere un grande impatto, nello spronare il videogiocatore a muoversi per raggiungere una determinata meta (Kremers 2009, p. 164-165 e Totten 2014, pp. 113-115), perché pone un obiettivo visibile, concreto, suscitando il desiderio di esplorarlo. Il percorso fra i due punti sarà composto con una struttura implicitamente o esplicitamente labirintica, rendendo molto più lunga e complessa la percorrenza rispetto a un semplice viaggio in linea retta, ma visualizzare il proprio obiettivo a distanza è un incentivo a percorrerlo (Walz 2010, pp. 190-196).

Può essere utile qualche esempio[18], a tal proposito. In Journey (thatgamecompany, 2012) l’obiettivo del gioco consiste nel raggiungere e scalare un’imponente montagna che, fin dall’inizio dell’avventura, si staglia all’orizzonte, fungendo anche da ‘faro’ per orientarsi nel deserto in cui ci si ritrova. The Legend of Zelda: Breath of the Wild (Nintendo, 2017) prende avvio su un altopiano dal quale, inizialmente, non si può uscire, ma da lassù è già possibile osservare il panorama circostante, intravedendo numerosi luoghi che sarà poi possibile raggiungere. Quando, all’inizio di Dark Souls (FromSoftware, 2011), vengono raggiunte le terre di Lordran, fin dal principio è possibile scorgere un gran numero di ambienti successivamente visitabili. Nei primi minuti di Two Worlds (Reality Pump, 2007) è possibile vedere dall’alto un ampio tratto della pianura che sarà raggiungibile ed esplorabile.

Il viaggio verso la montagna in Journey

L’elenco potrebbe continuare a lungo, e andare a includere anche videogiochi in cui non è la visione diretta, ma la rappresentazione cartografica, a suggerire subito che quanto visualizzabile al momento sia solo un frammento del mondo di gioco nel suo complesso[19]. Sono spesso immagini sbiadite, che magari non sono l’effettivo modello dell’oggetto che è presente nel gioco (per alleggerire la memoria del sistema, che può così gestire un numero ridotto di oggetti contemporaneamente presenti), ma proprio per questo sembrano corrispondere ulteriormente ai monti e ai fiumi cui si rivolge Alessandro, quando li definisce «Azzurri come il cielo, come il mare» per il colore che assumono a distanza[20].

Man mano che montagne e fiumi vengono superati, però, può farsi sempre più forte il ricordo e il rimpianto, come per Alessandro (Sozzi 2008, p. 592), quando esclama «Montagne che varcai! dopo varcate, / sì grande spazio di su voi non pare, / che maggior prima non lo invidïate». Soprattutto quando, come talvolta avviene, si scopre che la mappa consultabile non corrisponde appieno alle dimensioni dei territori esplorabili.

Un esempio è Final Fantasy XV (Square Enix, 2016): i primi territori visitabili possono essere esplorati quasi nella loro totalità, abbandonando strade e sentieri, ma in altri casi lo spazio al di fuori delle strade tracciate può essere raggiunto solo in minima parte, andando di fatto a ridurre considerevolmente la superficie di mappa davvero percorribile. Tanto più, in questi casi, anche il videogiocatore che «assiste alla caduta del sogno di fronte al manifestarsi del vero, si pente di aver iniziato il proprio viaggio solo apparentemente trionfale» (Capecchi 2010, p. 95).

Emerge allora il desiderio di guardare indietro, ed è – nuovamente – il videogioco stesso a suggerire un simile sguardo. Aver la possibilità di guardarsi alle spalle e osservare, magari da un’altura[21], il lungo tratto di strada percorso ha un positivo rinforzo legato agli obiettivi raggiunti (Kremers 2009, p. 164), ma al tempo stesso può aprire la strada al rimpianto: quando ci si trovava laggiù, all’inizio della propria avventura, il mondo di gioco era ancora una promessa, una vastità da esplorare; ora, invece, subentra la consapevolezza di averne già scoperta una parte, e che gli spostamenti successivi andranno man mano a ridurre sempre più i luoghi ancora da raggiungere. Nel rafforzare il senso di completezza, il videogioco apre potenzialmente anche al desiderio, paradossale, di poter tornare indietro a sognare le terre inesplorate, invece che vederle.

Il videogiocatore è insomma teso fra un continuo desiderio di esplorazione e scoperta, per proseguire senza sosta nella sua esplorazione e, al tempo stesso, percepire l’angoscia del raggiungere troppo presto anche «l’ultimo orizzonte da esplorare [che] è il virtuale» (Fulco 2006, p. 9), dopo che il viaggio nella realtà è divenuto una esperienza abituale, persino quotidiana per molti (Gasparini 1998, pp. 7-37; Riva 2018). Egli è tentato, insomma, di seguire quanto detto da Alessandro Magno: «era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: / il sogno è l’infinita ombra del Vero». È, come detto, una posizione paradossale, perché se portata effettivamente a compimento spingerebbe un videogiocatore a non giocare più. Inoltre i mondi dei videogiochi sono certo non infiniti, ma sicuramente numerosissimi, evitando il pianto di Alessandro per l’impossibilità di conquistare altri mondi (come riportato in Plutarco: Pisani 1989).

C’è da trovarsi insomma di volta in volta, di videogioco in videogioco, nella condizione di Olympiàs in Alexandros, la quale «sta vivendo la stessa avventura del figlio prima della delusione; le voci, i sussurri che vengono dall’ignoto; quelli che soltanto la poesia sa cogliere ed esprimere nei rari trasalimenti della coscienza» (Pazzaglia 2002, p. 238). Si cerca di rinnovare più volte quella condizione aurorale in cui la lontananza lascia trapelare il desiderio di un mistero da conoscere, contentandosi di ricadere ogni volta insieme ad Alessandro Magno «nell’amara affermazione che l’impresa mai eguaglia l’interezza del sogno» (Rogante 2013, p. 103).

Si può prendere, come esempio concreto, il già citato Final Fantasy XV, che segue l’avventuroso viaggio del principe Noctis Lucis Caelum e dei suoi amici Gladio, Ignis e Prompto. Il loro lungo peregrinare ha inizio in un’area di sosta in mezzo al deserto, dove sono costretti a fermarsi per rifornire di carburante la loro automobile.

Il viaggio tra amici in Final Fantasy XV

Un inizio sommesso, allineato allo spirito di buona parte della loro avventura, in cui Noctis e i suoi amici dovranno infine salvare il mondo, ma il più delle volte agiscono come un’allegra brigata in vacanza: vanno a pesca, chiacchierano intorno al fuoco da campo, mangiano quel che loro stessi cucinano e scattano fotografie. Queste ultime, scattate dal giovane Prompto Argentum[22], costituiscono il rimando (visivamente esplicito, in questo caso), all’inizio dell’avventura e alle sue tappe salienti. Nel finale del gioco, infatti, poco prima di affrontare l’ultimo e più temibile nemico, Noctis Lucis chiede all’amico Prompto di rivedere le foto che ha scattato durante il viaggio, per portarne una con sé. Il videogiocatore le passa in rassegna con Noctis, probabilmente andando man mano a rievocare, aiutato dagli amici del protagonista, intenti a commentare le differenti fotografie che vengono mostrate.

I quattro amici erano più felici, al tempo in cui furono scattate quelle foto, perché il loro mondo non era ancora in rovina, avvolto in una notte eterna, e la loro avventura era a metà fra un’impresa eroica e un viaggio per diporto, mentre ora la fine incombe minacciosa. Ma in quel momento incombe anche – altrettanto opprimente – l’idea di un’altra fine, quella del videogioco, sul videogiocatore che a sua volta sta sfogliando le foto. Su entrambi i versanti è un momento di forte nostalgia, evocata dalle immagini e dalle parole che le accompagnano, non così dissimili da quelle di Alessandro Magno sulla maggior felicità passata, legata ad alcuni luoghi: «Ad Isso, quando divampava ai vènti / notturno il campo, con le mille schiere, / e i carri oscuri e gl’infiniti armenti. / A Pella! quando nelle lunghe sere / inseguivamo, o mio Capo di toro, / il sole; il sole che tra selve nere, / sempre più lungi, ardea come un tesoro»[23].

Ripercorrere il tragitto

È tuttavia anche possibile ricominciare un videogioco, ripartire dall’inizio dell’avventura, anche in vista del fatto che ciascuna partita è almeno in minima parte differente rispetto alle precedenti, sul piano ludonarrativo del racconto ludico[24]. Per questa seconda possibilità è utile richiamare la figura dell’Odisseo pascoliano, che «parte verso il già noto, il già sperimentato, verso il ritorno a mete già raggiunte» (De Caprio 2010, p. 45)[25].

Un Odisseo «non rassegnato a finire i suoi giorni sulla terra, che sembra ai suoi occhi un luogo di esilio rispetto alla patria celeste, al mare dell’essere da riattraversare ancora una volta» (Capecchi 2013, p. 167), che – come sottolineato da Nava (1997b) – si rimette in viaggio con la primavera, ma c’è uno scarto incolmabile fra il rinnovarsi delle stagioni, nel ciclo naturale, e la vita degli individui[26]. In un videogioco il new game è sempre possibile[27], ma l’esperienza di scoperta della prima partita non sarà più replicabile, poiché già si conosce il mondo di gioco, con i suoi confini e le sue sfide. Queste ultime, peraltro, appaiono il più delle volte molto più semplici rispetto al passato, riducendo il portato emozionale del “primo incontro”[28]. Anche sotto questo aspetto sembra sensato il parallelismo con l’Odisseo dei Poemi conviviali: così come Polifemo si rivela, nell’Ultimo viaggio, il «tondo occhio di fuoco», così i più temibili boss[29] dei videogiochi perdono facilmente la loro aura, una volta conosciuto il pattern dei loro movimenti e scoperti i loro punti deboli[30].

Alcuni videogiochi GDR e adventure, divenuti particolarmente celebri per la loro difficoltà, si basano in larga misura su questo aspetto, che estendono all’intera avventura: una sequela di pericoli occultati e imboscate in ambienti che non risultano immediatamente ‘leggibili’ dal videogiocatore. Può essere utile spendere qualche parola su un esempio specifico: videogiochi come Demon’s Souls (FromSoftware, 2009) e Dark Souls (FromSoftware, 2011), divenuti celebri per la loro difficoltà elevata, spesso descritta con toni enfaticamente sproporzionati[31].

Alcuni degli elementi che concorrono a formare questo senso di difficoltà rimangono restano invariati con il susseguirsi delle partite (come il fatto che il personaggio sia generalmente piuttosto fragile, con pochi “punti vita” rispetto ai danni che i nemici possono infliggergli), ma altri sono strettamente legati alla prima esperienza di gioco, perché legati a un fattore di sorpresa con continue variazioni.

Uno degli ambienti di Dark Souls, per esempio, è un vasto dedalo fognario (The Depths) in cui, per la scarsa visibilità, è facile essere aggrediti da un nemico in agguato ogni volta che si oltrepassa una curva a gomito in un corridoio. Dopo aver subìto un assalto a sorpresa, però, il giocatore comincia probabilmente a prestar maggiore attenzione durante queste svolte, ma intanto il videogioco presenta nuove sorprese, prima con assalti dal soffitto e poi – quando probabilmente si sta controllando sopra la propria testa – con aperture nel terreno in cui è facile precipitare (ritrovandosi in un corridoio sottostante, circondati da mostri). In questo e altri casi è soprattutto la gestione dello spazio – come sinergia fra level design e posizionamento dei nemici al suo interno – a produrre questo effetto, ma la conoscenza pregressa degli ambienti di gioco depaupera fortemente l’impatto sulla sfida e, di conseguenza, sull’esperienza nel suo complesso.

 Tanto meno il videogiocatore è guidato (da mappe, indicatori a schermo, etc.), tanto più nella sua prima partita sperimenterà il piacere della scoperta, che – come ricorda Derek Yu, il creatore di Spelunky (2008) – costituisce uno dei principali elementi di godimento dell’attività ludica[32]. Yu fa un esempio concreto (Yu 2016, pp. 63-68), paragonando il primo The Legend of Zelda (Nintendo, 1986) al più recente The Legend of Zelda: Skyward Sword (Nintendo, 2011).

Egli descrive quest’ultimo come una sorta di parco giochi del game design, un ben architettato insieme di elementi divertenti e stimolanti, pensati però per una fruizione standardizzata, sequenziale, molto guidata. Il primo The Legend of Zelda, invece, somiglia molto più all’esplorazione di un territorio inesplorato, perché si viene gettati in un vasto mondo di gioco con pochissime informazioni a propria disposizione. Come ricorda Derek Yu, «no one tells you where the first dungeon is located. It’s possible to wander into the farthest reaches of Hyrule before locating it» (2016, p. 64)[33]. Tutto ciò mantiene ovviamente tale valenza fintanto che quel mondo rimane effettivamente inesplorato, perché in seguito non si è più davanti a quella «often an unknown and uncertain experience» (Brock 2017, p. 180) che caratterizza la prima partita a un GDR o un adventure[34].

Al pari dell’Ultimo viaggio, «i luoghi sono gli stessi del passato, con tutti i segni che ne consentono il riconoscimento, per così dire, esterno, geografico, topografico, territoriale» (De Caprio 2010, p. 53)[35], ma gli incontri non sono più gli stessi, perché già si sa dove è collocato il “boss” di turno e quali saranno i suoi attacchi. Il senso di lontananza (in questo caso temporale, più che spaziale) fornirebbe “poeticità” a un videogioco portato a termine in passato, se vi si volesse applicare il pensiero di Pascoli sulla poesia epica (Da Rin 1992 ed Elli 2012), così come Odisseo è spinto dal ricordo delle sue imprese, alle quali vuol far ritorno. Ma rivivere il viaggio significa scoprirlo in una forma depauperata, mai all’altezza del proprio ricordo, e trovarsi magari – infine – solo a naufragare[36] dinnanzi al «silenzio delle sirene»[37].

Si torna a quel paradosso indicato in precedenza, parlando di Alexandros, secondo cui bisognerebbe abbandonare un videogioco per poter continuare a godere della promessa esplorativa che offre, evitando di giungere alla sua fine. La tentazione sarebbe quella di estendere questa paradossale affermazione, giungendo a dire che sarebbe ancor meglio evitare proprio di iniziare un videogioco, piuttosto che trovarsi poi privati della possibilità di esplorarlo, una volta raggiunti i suoi confini prestabiliti, richiamando le parole di Calypso che chiudono l’Ultimo viaggio: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!»[38].

Ma un’ulteriore alternativa – riducendo un poco il paradosso – sarebbe anche quella di dire che la condizione ideale sia di ricominciare continuamente un videogioco, senza mai portarlo a termine, in una perpetua struttura circolare che, a sua volta, trova un legame con la Calypso di Pascoli[39]. Sacrificare insomma lo stupore della prima esperienza, perpetrando una ciclicità ‘morente’, ma preservando la possibilità della scoperta futura, l’idea di avere ancora davanti a sé nuovi spazi da esplorare. Tornando alle pratiche effettive dei videogiocatori, del resto, non sono infrequenti i casi in cui una persona rigioca – talvolta quasi ossessivamente – lo stesso titolo più e più volte, portando a conclusione o meno le varie partite.

Le variazioni sul piano ludonarrativo che caratterizzano questo medium costituiscono certamente una facilitazione, in tal senso, perché queste varie partite non risulteranno mai perfettamente uguali fra loro. Anzi, tanto più è ampia la panoramica delle possibilità, tanto più si potrebbero sperimentare variazioni sul tema sempre differenti, sia sul piano del gameplay che su quello della narrazione. In Mass Effect 3 (BioWare, 2012), per esempio, sono presenti dialoghi con decine di varianti, basate sulle scelte del giocatore non solo all’interno di questo videogioco, ma anche dei suoi due predecessori (BioWare, 2007 e 2010), creando una estesa narrazione – che può durare anche un centinaio d’ore – sempre differente[40]. Oppure, nel già citato Dark Souls, si possono sperimentare numerose combinazioni di armi, armature e incantesimi, per approcciarsi con una sfida sempre rinnovata ai difficili scontri offerti dal videogioco.

Un ancor giovane Pascoli scriveva che «l’Ariosto non poteva né doveva inventare nuovi miti romanzeschi, ma solo svolgere e adornare quelli che esistevano, come ai bambini piace più una nuova narrazione su un tema da loro conosciuto, e nuovi fatti d’un eroe a loro caro, perché noto» (si cita da Andreoli 1995, pp. 37-38). E questo è forse qualcosa che i mondi videoludici, per la loro stessa struttura mediale, oggi facilitano.

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Note

[1] Si cita dall’edizione a cura di Maria Belponer: G. Pascoli, Poemi conviviali, prefazione di Pietro Gibellini, Milano, Rizzoli, 2009.

[2] De Caprio (2010), Elli (2002), Pazzaglia (1997).

[3] Un’esigenza riscontrabile in numerose pubblicazioni, accademiche e non, dedicate ai videogiochi, come sottolineato per esempio da Falcetto (2014). Ma già dieci anni prima Massimo Maietti aveva criticato i “pamphlet apologetici” sui videogiochi, le cui argomentazioni, «evidenti tentativi di reazione e risposta ai detrattori dei videogiochi che tuonano dai dipartimenti di pedagogia e dalle pagine dei quotidiani, spesso peccano di quello che potremmo definire come un eccesso di legittima difesa» (2004, p. 22). Il tema è estesamente trattato nel capitolo Vedere i videogiochi in positivo e in negativo di Pellitteri e Salvador (2014, pp. 139-188). A prescindere dai tentativi di legittimazione, comunque, nel presente testo non verranno neanche avanzate proposte per un ipotetico videogioco sui Poemi conviviali, né verrà preso in considerazione l’aspetto educativo del medium videoludico. Su questi ultimi due aspetti si rimanda comunque a Hunter (2018) e Gee (2013).

[4] Un multidisciplinare ambito di studio sui giochi, le loro meccaniche e i fenomeni che ruotano intorno ad essi. Cfr. Mäyrä (2008).

[5] «Come avviene l’azione di gioco, il modo in cui si sviluppa tale azione di gioco; l’esperienza di gioco di un videogame, la giocabilità» Barbieri (2019, p. 95).

[6] «Parte della creazione di un videogioco, consistente nella creazione, nel design, nella progettazione dei livelli di gioco» Barbieri(2019, p. 123). Per maggiori approfondimenti si rimanda ai saggi e ai manuali sul tema, come i lavori di Byrne (2005), Kremers (2009) e Totten (2014 e 2017)e – per gli spazi di gioco non solo videoludici – i capitoli dedicati al tema nel volume di Bertolo e Mariani (2014). Resta inoltre un riferimento fondamentale il libro di Nitsche (2009). Per una rapida panoramica si veda invece Picard (2013).

[7] E prima di lui, Janet Murray, pur con un focus differente, legato all’immersione in uno spazio differente da quello in cui il videogiocatore è collocato: Murray (1997).

[8] Si vedano i lavori di Pearce (2002 e 2007); Nitsche e Thomas (2003); Wei, Bizzocchi e Calvert (2010); Lammes (2008); D’Armenio (2014, pp. 81-151); Melnic (2018). Si rimanda infine a Fassone (2017) per una riflessione sull’apertura e la chiusura delle componenti videoludiche anche al di fuori della dimensione spaziale.

[9] Si vedano Adams (2003); Gerosa (2006); Walz (2010); Scotti (2011); Totten (2014); Zonaga e Carter (2019) e Pearson (2020).

[10] «Caratteristiche di tali giochi sono solitamente un mondo di gioco molto vasto, possibilità di incontrare molti personaggi non giocanti (NPC), possibilità di affrontare molte missioni (quest) anche al di fuori di quella principale, crescita del personaggio attraverso punti esperienza» Barbieri (2019, pp. 173-174). Si veda Lucas (2014) per una panoramica storica sul genere.

[11] «Videogioco in cui a essere preponderante è l’avventura, dunque una trama solida, avvincente, con fasi che potranno essere di esplorazione, risoluzione di segreti, eventuali combattimenti e simili; i generi di riferimento possono essere molteplici, ma spesso i giochi adventure portano il giocatore in posti misteriosi, in mondi fantasy o fantascientifici» Barbieri (2019, pp. 26).

[12] Per esempio un edificio potrebbe essere molto più grande degli altri per sottolineare che al suo interno si svolgono attività rilevanti per il gioco. Oppure una piccola staccionata potrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile, in un videogioco che non prevede la possibilità di saltare.

[13] Il quale sarebbe molto più avvicinabile alla figura di Ulisse in Gabriele D’Annunzio, in cui «il personaggio omerico vale come modello proiettato sull’attualità» (Nassi 2013, p. 320) e per cui «Navigare / è necessario; non è necessario / vivere» (si cita dall’edizione di Maia a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini: Gabriele D’Annunzio. Versi d’amore e di gloria, vol. 2, Milano, Mondadori, 1984) e rispetto al quale «tutto il poemetto dei Conviviali potrebbe essere letto come una replica alla Laus vitae e alla fantasmagoria della visione dell’eroe nelle acque di Leucade» (Mirto 2014, p. 74).

E la contrapposizione si estende anche al di fuori della figura di Odisseo: «Anche Alexandros, che a prima vista pare contiguo alla celebrazione dannunziana del “superuomo”, come si era attuata nel Trionfo della morte del 1893, per l’assunzione a protagonista d’una nuova figura d’eroe, ne costituisce, a ben guardare, il negativo» (Nava 1997a, p. 235). La proiezione sull’attualità (e, in particolare, sullo stesso D’Annunzio) dell’Ulisse di Maia non toglie però, nonostante la contrapposizione, la modernità dei temi presenti nei Poemi conviviali, sottolineata per esempio da Leonelli (1989); Marcolini (1997) e da Arnaldi («Quello dei Poemi Conviviali, del resto, è un Pascoli bifronte, al contempo moderno e antico»: 2015, p. 37). Su Ulisse fra D’Annunzio e Pascoli si veda anche Bertazzoli (1996).

[14] Nel presente contesto con avatar si intende una «immagine statica o personaggio scelto da un utente o videogiocatore affinché sia la sua rappresentazione virtuale in forum, blog, videogiochi, sia offline che online». Barbieri (2019, p. 30). Cfr. inoltre Papale e Fazio (2018).

[15] «Non altra terra se non là, nell’aria / quella che in mezzo del brocchier vi brilla, / o Pezetèri: errante e solitaria / terra inaccessa».

[16] Semplificando, lo skybox è un cubo che racchiude il mondo di gioco. Sulle pareti interne del cubo viene rappresentato il cielo e, oltre ad esso, è possibile inserirvi anche rappresentazioni di paesaggi lontani che non sono realmente raggiungibili (per esempio un profilo costiero al di là del mare). Manipolando il codice di un videogioco può esser possibile muoversi liberamente (si veda per esempio L.C. Pearson, 2020) e raggiungere le pareti dello skybox, ma una simile operazione non fa che mostrarne la natura illusoria.

[17] Occorre peraltro ricercare sempre un certo equilibrio, perché occorre da un lato offrire l’idea di un mondo più ampio di quel che è concretamente esplorabile, ma dall’altro non bisogna far pesare troppo al videogiocatore il confine invalicabile che si trova davanti: Burgess (2017, pp. 250-251).

[18] Gli esempi qui riportati riguardano tutti dei videogiochi con ambientazioni tridimensionali. Anche nei videogiochi bidimensionali è possibile inserire delle vedute con analogo funzionamento, ma bisognerà ricorrere ad accorgimenti specifici: Silber (2016, pp. 77-78).

[19] Come Horizon Zero Dawn (Guerrilla Games, 2017) e Death Stranding (Kojima Productions, 2019).

[20] «Ed ecco a tutti colorirsi il cuore / dell’azzurro color di lontananza» scrive Pascoli nell’Ultimo viaggio. Questo colore indica una visibilità estesa, senza nuvole, e poiché queste ultime sono «notoriamente simbolo in geografia di ciò che è sconosciuto perché non è ancora stato cartografato» (Avezzù 2017, p. 76), quelle montagne e quei fiumi in lontananza, di cui parla Alessandro Magno, offrono almeno una promessa di raggiungibilità. Per l’azzurro come colore della lontananza si veda Prete (2008, pp. 91-115). Per il tema della lontananza in Pascoli si rimanda invece a Traina (2010, pp. 74-86).

[21] Può essere utile fare, anche in questo caso, almeno un esempio. In Brothers: A Tale of Two Sons (Starbreeze Studios, 2013), man mano che i due fratelli protagonisti si allontanano dal loro villaggio natale vengono offerti (a loro e al videogiocatore) degli scorci della strada percorsa, con le casupole del villaggio sempre più lontane e indistinte.

[22] Molti videogiochi prevedono ormai una modalità con cui si possono scattare foto durante la loro avventura. Solitamente è il videogiocatore a scattare queste fotografie, come può fare anche in Final Fantasy XV, ma in quest’ultimo caso vengono anche scattate delle foto in automatico da Prompto, durante ciascuna delle “giornate” che scandiscono l’avventura. Questa funzione è inoltre molto più integrata nella diegesi del gioco, rispetto ad altri casi. Per una panoramica riassuntiva sulla fotografia videoludica cfr. Bittanti (2015, pp. 129-145).

[23] Vale la pena riportare anche l’icastica espressione che emerge dagli appunti di una versione antecedente del componimento: «Dolce è partire, non / arrivare. / Fossi giunto solo all’Indo». Dalle carte autografe citate in Baldassarri (2006, p. 107).

[24] Semplificando, le differenti realizzazioni potenziali offerte dal gameplay e dall’interattività si concretizzano di volta in volta in un singolo racconto ludico (Fulco 2004). Si veda inoltre anche quanto avevano già scritto in precedenza Colombo ed Eugeni nella loro analisi su Myst (Cyan, 1993): «in Myst il racconto esiste “in sé” solo allo stato potenziale di una rete di possibilità, che spetta al fruitore tradurre in una sequenza mano a mano che esplora tale rete e ne manipola gli snodi. Il racconto di Myst è un racconto articolato sulle possibilità offerte dallo spazio logico sottostante e articolato in base al procedere della fruizione» Colombo ed Eugeni (1996, p. 201).

[25] Ci si riferisce qui all’Odisseo de L’ultimo viaggio, più che alle sue apparizioni ne Il sonno di Odisseo e in Il Ritorno. In queste sue apparizioni c’è sempre l’idea di un ritorno mancato o incompiuto, non identificabile come tale, è nell’Ultimo viaggio che emerge con maggior forza la «tensione verso il mistero»: Gibellini (2002, p. 115). Cfr. anche V. De Caprio, Il nostos di Ulisse nei Poemi conviviali, in Gli antichi e i moderni: studi in onore di Roberto Cardini, L. Bertolini, D. Coppini (a cura di), Firenze, Polistampa, 2011, pp. 455-476.

Il Sonno di Odisseo, che parte dal recupero di un episodio omerico, «diventa per il Pascoli simbolo della labilità ed irraggiungibilità d’una condizione di felicità» (Froldi 2005, p. 11) e in tal senso può essere comunque ricondotto al presente discorso, seppur con meno intensità ed evidenza rispetto all’Ultimo viaggio.

[26] I quali, al più, si rinnovano nei loro discendenti, come emerge nei Vecchi di Ceo, in cui Panthide lascia la vita con maggior serenità rispetto al Lachon perché pensa ai suoi figli e al «Panthide nuovo», il nipote nato da poco.

[27] Eccetto alcune sperimentazioni, più uniche che rare, come il progetto Upsilon Circuit di Robot Loves Kitty, mai rilasciato in forma definitiva, in cui non sarebbe stato possibile iniziare una seconda partita, dopo la morte del proprio avatar.

[28] L’estremizzazione del concetto è rintracciabile nelle varie forme di speedrunning, gare di velocità in cui i videogiocatori si sfidano nel portare a termine un videogioco nel minor tempo possibile. Uno speedrunner gioca centinaia di volte allo stesso videogioco, arrivando a conoscere a memoria ogni sua singola componente. Sul fenomeno si veda R. Scully-Blaker (2018).

[29] «Avversario del videogiocatore, solitamente più forte dei bot o dei mob più comuni che ha affrontato sino a questo momento; di solito un boss si trova alla fine di determinati livelli, al termine dell’avventura, a protezione di determinate aree, tesori e/o premi» Barbieri (2019, p. 34).

[30] Occorre inoltre anche segnalare la possibilità, seppur meno frequente, di un boss che si rivela “buono” solo dopo la sua morte. In questo caso un videogiocatore alla sua seconda partita, conoscendo già la storia, potrebbe trovarsi combattuto fra il desiderio di proseguire nell’avventura e la consapevolezza di non poter evitare una azione che gli risulta sgradita. Esempi di questa categoria sono Shadow of the Colossus (Team Ico, 2005) e NieR: Automata (PlatinumGames, 2017). Nel primo caso viene chiesto al giocatore di uccidere dei maestosi colossi che – come si scopre in un secondo momento – sono pacifici e ‘buoni’; nel secondo si è intrappolati in un conflitto eterno privo di soluzione, e col proseguire dell’avventura si scoprono gli aspetti più personali e umani dei propri avversari. Mecheri (2017); Suttner (2016); Turcev (2018) e Kimmich (2017).

[31] A titolo d’esempio: «è un’esperienza brutale, questo gioco, ed è come nessun altro nella ferocia spietata con cui punisce abbagli ed errori di valutazione. Demon’s Souls è severo allo stesso modo in cui è severa la matematica davvero difficile, allo stesso modo in cui è severo Yahweh». Bissell (2012, p. 206).

[32] Un piacere che non riguarda solamente la scoperta spaziale: «The “joy of discovery” is one of the fundamental joys of play itself. Not just the joy of discovering secrets within the game, but also the joy of uncovering the creator’s vision. It’s that “Aha!” moment where it all makes sense, and behind the world the player can feel the touch of another creative mind» Yu (2016, p. 87).

[33] Con dungeon si intende qui un labirinto in cui bisogna sconfiggere nemici e risolvere enigmi per poter infine combattere contro il boss e poter proseguire nell’avventura.

[34] Non è la sede adatta per trattare in forma estesa l’argomento, ma è utile almeno ricordare come questo punto sia particolarmente importante per l’attuale panorama videoludico, in cui spesso gli utenti vedono video di walkthrough (video, cioè, che presentano un’intera partita a un videogioco, o comunque delle sue ampie parti) su piattaforme come YouTube e Twitch. In questi casi il primo viaggio di scoperta ed esplorazione non viene nemmeno compiuto dal videogiocatore stesso, e i produttori del gioco devono puntare sulla rigiocabilità, la varietà e la qualità dell’esperienza per convincere quell’utente ad acquistare a sua volta il videogioco.

[35] In alcuni videogiochi il discorso diviene più elaborato, perché essi possono presentare ambientazioni generate proceduralmente, che pertanto non sono sempre esattamente le stesse. Patrick Holleman (2019) offre un esempio molto approfondito di questa casualità controllata che produce le mappe di Diablo II (Blizzard Entertainment, 2000). Le varie sezioni della mappa vengono composte attingendo casualmente a un ‘mazzo’ di stanze, corridoi ed elementi interni, che possono combinarsi fra loro solo in determinati modi (la porta alla fine di un corridoio, per esempio, potrà collegarsi a diverse tipologie di stanze, ma non al muro di un altro corridoio). Considerando inoltre che alcune parti della mappa (per esempio quelle in cui si combatte contro un boss) rimangono sempre immutabili, il ricombinamento procedurale accresce certamente la varietà esplorativa, ma non annulla la ripetizione spaziale.

[36] Il cui simbolismo ha un ruolo di rilievo nella poesia di Pascoli: Baroncini (2018).

[37] Chiummo (1997). Cfr. anche Elli (2009); Corradini (2014) e, al di fuori dei componimenti di Pascoli, Moro (2012).

[38] Una Calypso che «non comprende perché l’uomo non possa continuare a vivere perennemente giovane, e alla legge naturale oppone il motto di Sileno, che privilegia il non nascere affatto alla lacerazione della morte» Mirto (2014, p. 84). Il «motto di Sileno», secondo cui sarebbe meglio non nascere o morire subito dopo la nascita, è riferito da Erodoto (viii, 138) e le informazioni sull’episodio della sua cattura, in seguito a cui ha pronunciato questa massima, sono integrate «da Senofonte (Anab. 1, 2, 13), da Teopompo (Athen. 2, 45, c) e da Pausania (1, 4, 5)»: Luisi (1998, p. 11). Sulla Calypso pascoliana cfr. anche Mirto (2008).

[39] Seguendo quanto sottolineato da Nava (1997a), che parla di un riavvolgersi della narrazione, secondo una struttura tipicamente mitica, con il ritorno del corpo di Odisseo a Ogigia, luogo in cui l’Odissea aveva preso avvio.

[40] Una narrazione che può anche essere approcciata con scelte morali differenti. In simili casi, peraltro, il comportamento dei videogiocatori tende a essere piuttosto differente, da una partita all’altra: Lange (2014).

Dall’avatar al loa: un’alternativa in chiave voodoo ai simulacri videoludici

Come noto, il termine avatar è abitualmente utilizzato nei videogiochi per descrivere le nostre protesi digitali, i simulacri di cui noi assumiamo il controllo per la durata dell’esperienza ludica. Avatar è un termine che è stato “preso in prestito” dall’induismo, in cui indica la discesa di una divinità sulla terra. È un termine certamente sensato, per descrivere l’esperienza videoludica, e su cui di quando in quando si torna a riflettere (per esempio Papale e Fazio 2018).

Non è però l’unico possibile. Sarebbe possibile prendere il lessico di un’altra tradizione religiosa e utilizzarla per descrivere questo rapporto tra giocatori e personaggi, da una differente prospettiva? È quanto si farà di seguito con il voodoo.

NOTA: quanto scritto qui di seguito è una parziale rielaborazione di un contributo che scrissi qualche anno fa, lasciandolo poi nel cassetto virtuale del computer. Oggi lo strutturerei diversamente e non escludo – nel futuro – di recuperare questi concetti in maniera più ordinata e robusta. Mi sembrava però che potesse comunque essere interessante, per cui – in attesa di eventuali sviluppi futuri – lo condivido qui. Mi sono giusto limitato a una ripulita generale del testo.

Tra i vari contenuti che vorrei approfondire in futuro c’è anche la possibilità di uno “spin-off” per la storia dei videogiochi horror che sto portando avanti qui sul sito, in cui parlare delle rappresentazioni voodoo nei videogiochi. Anche in vista di questa possibilità, dunque, pubblicare questo articolo può essere l’avvio di un discorso.

i simboli di due loa del voodoo

Breve definizione terminologica

Il voodoo, con tutte le sue grafie e varianti, è un termine problematico, sia per l’assommarsi di tradizioni e immagini non sempre pertinenti – se non del tutto fuorvianti – intorno al concetto, sia per l’ampiezza del termine, nei cui confini rientrano numerose e differenti entità, anche a seconda della tradizione considerata. I dizionari, e particolarmente quelli dedicati alla storia delle religioni, forniscono la cornice per un primo inquadramento:

«Vodu, vodun, voodoo sono varianti di trascrizione del termine africano, con il quale, nelle lingue fon[1], nel Dahomey e nel Togo, si designa un dio, uno spirito, un oggetto carico di potere numinoso. Il termine è servito a indicare la religione popolare dell’isola di Haiti […]. Nella sua origine e nelle sue attuali condizioni, il Voodoo è religione ‘popolare’, nel senso che è respinta dalle classi cd. colte o intermedie» (di Nola 1976, corsivo dell’autore)[2].

Si riscontrano qui almeno tre punti di interesse immediato. In primo luogo la trascrizione dell’originario termine fon presenta numerose variazioni, anche superiori a quelle riportate nella voce enciclopedica; si segnalano almeno vaudou, woodoo e vodhun. Secondariamente è possibile constatare la polisemia del termine, in quanto esso indica almeno tre differenti concetti, pur relativamente vicini fra loro: dio, spirito, oggetto; ma viene anche utilizzato per indicare – in maniera più o meno appropriata a seconda del caso – un luogo, una religione, una pratica magica ed altro ancora. Infine emergono due delle principali aree geografiche cui è legato il culto: l’Africa occidentale fra Ghana e Benin da un lato, l’isola di Haiti dall’altro.

Oltre a questa complessa struttura bisogna inoltre considerare le ‘sovrastrutture’[3] che nel corso degli anni si sono sviluppate nei media e nei discorsi, trasmettendo una immagine spesso distorta, oscura o riduttiva del voodoo. L’utilizzo stesso dei termini è dunque parzialmente compromesso da una lunga tradizione in cui il culto è unicamente associato «a un immaginario da film dell’orrore, fatto di magia nera, streghe, zombi e fantasmi e che ha trovato uno sbocco commerciale in un mercato affascinato dal gotico, dall’esoterico, dal dark e dall’horror» (Brivio 2012, p. 41).

Alla costruzione di questo immaginario hanno contribuito numerose opere letterarie, cinematografiche[4] e, negli ultimi anni, anche videoludiche. Per questo motivo si è qui scelto di utilizzare, un po’ provocatoriamente, il termine voodoo, proprio perché è la variante – fra le molte possibili – più compromessa rispetto a questo immaginario di bamboline e morti viventi, che costituiscono la categoria di recuperi più diffusi nei videogiochi. Verrà inoltre considerata principalmente, sebbene non esclusivamente, la tradizione voodoo di Haiti, per la stessa ragione.

Detto questo, occorre fornire almeno alcune indicazioni di carattere generale sulla religione voodoo, per rendere comprensibile quanto si dirà in seguito.

Il pantheon voodoo e le pratiche rituali a esso collegate costituiscono una materia multiforme, che presenta differenze considerevoli non solo fra il culto haitiano e quello africano, ma, ad esempio, anche all’interno della stessa Haiti. Una breve presentazione dell’argomento non può pertanto far altro che offrire alcune indicazioni generali. La struttura del culto poggia su quella che Maya Deren ha definito una Trinità, composta da Morti, Misteri e Marassa (Deren 1997, pp. 30-65). Questi ultimi sono i Gemelli Divini, e anche per i bambini gemelli di qualche famiglia sono previste determinate attenzioni rituali. Il culto dei morti invece, pur con le sue particolarità, si spiega da solo (si veda Métraux 1971, pp. 243-265).

I “Misteri” infine sono i loa, definiti spesso anche “spiriti”, “genî” e, in determinati contesti e territori, anche “santi” o “angeli”. Improprio invece definire i loa delle divinità, sebbene alcuni di loro derivino effettivamente da alcuni déi africani. Essi sono piuttosto gli intermediari fra un dio, unico, distante e disinteressato – Mawu-Lisa dell’Africa occidentale o il Bondyé haitiano (Thayer 2009), versione del Dio cristiano che assume la valenza del fato e del destino – e il mondo dei mortali.

Similmente, non è appropriato definire i loa “diavoli” o spiriti infernali, come è stato fatto in più occasioni dal clero haitiano, e come una loro rappresentazione in chiave oscura e diabolica continua a veicolare. I loa non sono malvagi, per quanto spesso appaiano permalosi e intrattabili. Anche i più “oscuri” fra loro (quelli che rientrano nella famiglia petro), che si prestano a essere invocati in rituali di magia nera, rivelano spesso anche una valenza positiva in altri contesti[5].

Esistono alcuni loa principali largamente conosciuti e adorati – e molti di questi si presentano anche in più ‘versioni’ differenti, sia all’interno di una stessa famiglia loa sia tramite controparti positive e negative di uno stesso archetipo – ma vi è poi un continuo proliferare di nuovi “misteri”, rivelati durante le possessioni, derivati dagli antenati o attraverso altre forme ancora. Métraux riporta il curioso episodio in cui un sasso con attaccate due conchiglie, rinvenuto per caso da un pescatore, diviene un nuovo loa sotto il nome di “Capitano Déba” (Métraux 1971, pp. 82-83).

Spesso inoltre i loa sono stati assimilati dai fedeli voodoo ai santi cristiani, per via di alcuni particolari iconografici dei santi che richiamano determinate caratteristiche di uno o più spiriti. Più in generale, diversi rituali sono stati modellati su quelli cristiani oppure, in Africa, su elementi della religione islamica, e se è pur vero che questi elementi sono spesso ripresi solo come patina superficiale, tanto da portare a discutere sull’effettivo sincretismo del voodoo, il loro impatto non è comunque indifferente (Hubron 1987, pp. 101-120; Métraux 1971, pp. 324-336; Brivio 2012, p. 12).

Il videogiocatore e il suo avatar

In un videogioco si assiste all’attorializzazione del videogiocatore, attraverso quella che Maietti ha definito «messa in ruolo videoludica» (Maietti 2004, p. 124, corsivo dell’autore). In altre parole si è chiamati a interpretare un ruolo coerente con il mondo narrato, diventandone un individuo. Non sempre tale messa in ruolo comporta una presenza a schermo; al contrario è possibile «conferire al fruitore il potere di abitare il mondo di gioco non solo concedendo la possibilità di incarnare un simulacro attorializzato […] ma semplicemente attribuendo facoltà interattive che modificano il mondo narrato, come in Tetris» (Trabattoni 2014, p. 19).

Sempre Maietti parla anche di «gradiente interattivo del simulacro» (Maietti 2004, pp. 127-128) (ossia in che misura il giocatore può modificare alcune caratteristiche del suo alter ego digitale) e classifica quattro differenti forme di attorialità, a seconda che il simulacro sia presente o assente, plurale o individuale (Maietti 2004, pp. 128-130).

Il passo successivo, anche in vista di queste diverse possibilità, è considerare il videogiocatore non necessariamente – o non solo – un attore, ossia un personaggio che agisce o subisce una azione, ma un attante, ossia un ruolo/funzione di uno o più attori (Bertolo e Mariani 2014, pp. 117-119). Esempio classico in tal direzione è costituito dagli strategici, in cui il giocatore, impartendo ordini a un intero esercito, è l’attante Destinante (colui che persuade il soggetto a compiere un’azione) che indirizza un attante Soggetto collettivo verso il suo Oggetto (lo scontro con gli avversari, la conquista di un presidio, ecc.).

Il termine qui impiegato, simulacro, è «in ultima istanza una strategia che si applica per simulare la presenza di una entità che è invece assente: non può descrivere il lavoro del giocatore, che è ben presente come strategia attanziale, discorsiva e interpretativa» (D’Armenio 2014, p. 35, corsivo dell’autore). Al di fuori di questa riserva sull’impiego del termine per le fasi interattive di un videogioco, “simulacro” ha avuto anche largo impiego nella fantascienza, in cui ha finito per indicare un ampio spettro di concetti e figure differenti. Questa varietà attributiva contribuisce a rendere meno univocamente definibile il termine, tanto più che, se effettivamente alcune sue applicazioni fantascientifiche hanno un legame più o meno stretto con la presenza del videogiocatore (un esempio potrebbe essere Matrix), in altri casi la distanza è marcata. La definizione stessa di “simulacro” si muove in tal senso[6].

Bruno Fraschini, in un suo testo, ha definito il simulacro con cui il giocatore interagisce col mondo digitale come «una protesi digitale, qualcosa che dona all’essere umano la possibilità di compiere azioni in un mondo di cui non fa “realmente” parte» (Fraschini 2004, pp. 110-111). Parlare di “protesi” vuol dire indicare non più un sostitutivo “ingannevole” (simulacro è, per definizione, umbratile, inautentico, esteriore), ma un sostitutivo “funzionale”, ossia in grado di replicare determinate funzioni in assenza dell’arto/organo a esse predisposto[7]. Nei mondi digitali, in particolare, a essere in posizione di assenza – nel senso di “non fisicamente presente col proprio corpo” – è l’intera corporeità del giocatore, che ha dunque bisogno di questa protesi digitale.

Un altro termine utilizzato – con molta più frequenza – per descrivere la protesi/simulacro è avatar. Non è infrequente, infatti, leggere che “Lara Croft è l’avatar del videogiocatore”, o che “in un MMORPG il giocatore personalizza il proprio avatar”. Si veda una definizione del termine sanscrito avatāra, da cui i suoi utilizzi odierni sono stati mutuati:

The idea of an avatāra, a form taken by a deity, is central in Hindu mithology, religion and philosophy. Lite rally the term means “a descent” and suggests the idea of a deity coming down from Heaven to Earth. The literal meaning also implies a certain diminuition of the deity when he or she assumes the form of an avatāra. Avatāras usually are understood to be only partial manifestations of the deity who assumes them […]. Theologically an avatāra is a specialized form assumed by Viṣṇu for the purpose of maintaining or restoring cosmic order (Kinsley 2005).

Una definizione, questa, che si ricollega alla già espressa idea di una entità sostitutiva, parziale, diminutiva, in cui trovarsi per un periodo più o meno duraturo al fine di realizzare un determinato obiettivo. Anche questo non è un termine univoco, non solo perché – banalmente – è ripreso da un concetto religioso, ma anche perché la sua applicazione attuale fa riferimento ad oggetti differenti. Alcuni di questi sono gli avatar di piattaforme digitali relativamente vicine ai videogiochi, come Second Life, mentre altri – esempio classico: l’avatar utilizzato in un forum – sono decisamente più distanti. Non mancano inoltre, anche in questo caso, contaminazioni fantascientifiche, fra cui il romanzo Snow Crash (1992) di Neal Stephenson o il film Avatar (2009).

In ambito videoludico, prescindendo dall’accennata questione terminologica, esiste un doppio scambio fra l’avatar digitale e il suo controllore nel mondo reale – o nel mondo “non-virtuale”, seguendo la proposta di Waggoner[8]. La prima direzione di questo passaggio è quella che va dall’utente al suo avatar; si tratta della personalizzazione estetica o delle decisioni comportamentali, in base al fine desiderato o al ruolo che si vuole ricoprire. Non necessariamente il risultato ottenuto rispecchia l’aspetto e la personalità di colui che impiega un determinato avatar – in campo videoludico e non – ma come accennato è anche possibile che l’utente desideri calarsi volontariamente in una rappresentazione molto diversa dal suo io non-virtuale[9].

Questo primo passaggio è, come intuibile, più forte ed esplicito in presenza di un avatar personalizzabile, o di cui è possibile controllare le decisioni. Un simile caso costituisce però solo una parte delle identità assumibili in un videogioco. Un esempio classico è quello di Mario, il noto idraulico baffuto: il suo aspetto non è personalizzabile, né il giocatore può influenzarne il comportamento al di fuori del controllo motorio (il che costituisce comunque una presa di posizione, una decisione, ma piuttosto blanda).

Eppure anche Mario è un avatar del giocatore. Questo perché, se spesso un avatar ha una funzione “sociale”, di doppio del proprio ruolo non-virtuale o di suo contraltare, per presentarsi e relazionarsi in un determinato contesto virtuale, altrettanto frequentemente esso viene impiegato in contesti narrativi, non necessariamente sociali.

Un episodio platform di Super Mario ha una storia già stabilita, che il giocatore più che influenzare deve concretizzare. Non si tratta di un racconto tradizionale, ma di un racconto ludico, ossia un elemento che rappresenta «l’aspetto narrativo delle meccaniche di gioco e l’aspetto interattivo della narrazione» (Fulco 2004, p. 66). Un racconto dettato da cambiamenti di stato, anche solo da quello di quiete a quello di moto o viceversa. Rimane dunque, a questo livello, la possibilità del giocatore di interagire sul mondo virtuale e la sua narrazione, attraverso il proprio avatar (facendo avanzare Mario lungo un livello di gioco, ad esempio), e in tal senso è ‘personalizzabile’ perlomeno la posizione di quest’ultimo nello spazio. Rimane evidente, però, la distanza di una simile situazione dalle personalizzazioni estetiche e relazionali/comportamentali offerte da un titolo come il già citato Word of Warcraft.

È soprattutto – ma non esclusivamente – in casi come quello di Mario che emerge il secondo “scambio” fra avatar e videogiocatore, opposto al precedente. Papale utilizza il termine identificazione, in contrasto con proiezione, per descrivere questo fenomeno, in cui «il giocatore introietta il tratto caratteriale predominante del personaggio, facendolo suo e vivendolo come se fosse parte del suo essere» (Papale 2013, pp. 85-86). Più in generale si parla di Proteus effect (effetto Proteo, dal nome del mutaforme dio greco), in base al quale il comportamento di un individuo in un mondo virtuale – e in una certa misura al di fuori di esso – sarebbe regolato dalle caratteristiche visive dell’avatar (genere, colore degli abiti, carnagione, ecc.). Questo effetto, insieme a similari espressioni e teorie correlate, rappresenta l’altra faccia della medaglia nel rapporto videogiocatore-avatar. Su questo interscambio è possibile segnalare un parallelismo con il culto voodoo.

Il videogiocatore: cavallo e cavaliere

Uno dei fondamenti del voodoo è costituito dal fenomeno della possessione. Un loa, durante una cerimonia ma anche nella vita quotidiana, discende su un fedele e lo “cavalca” per un certo lasso di tempo. Per tutta la durata della possessione il “cavallo” assume le caratteristiche di quello specifico loa che lo controlla: richiede determinati vestiti e cibi, utilizza un particolare linguaggio e compie una serie di gesti inconsueti. Coloro che assistono a un fenomeno simile si rivolgono al posseduto come se fosse il loa, e un mancato riconoscimento della sua identità o autorità provocherebbe collera e sdegno. Si tratta inoltre di una possessione volutamente ricercata, per quanto temuta, essendo spesso la sua manifestazione preceduta da vertigini, senso di smarrimento e terrore.

Tutto ciò ha portato a un’ulteriore condanna del clero locale contro il voodoo, in cui si è vista una sorta di possessione demoniaca. I fedeli del culto però, al contrario, distinguono le possessioni degli spiriti maligni – pericolose, da evitare – da quelle dei loa, pur talvolta violente, sfiancanti e in una certa misura pericolose. A differenza di quella che, grosso modo, è la tradizione africana, nel voodoo haitiano non sono solamente gli iniziati a essere posseduti, ma è un fenomeno che può capitare a qualsiasi fedele e, in casi particolari, anche ad alcuni estranei. Celebre in tal senso il caso di Maya Deren, studiosa e artista americana entrata in contatto col voodoo per un documentario sulle danze indigene, che è stata “cavalcata” dalla loa Erzulie.

La cineasta ha parlato di “bianca oscurità”, espressione divenuta poi piuttosto celebre, per raccontare la sua esperienza di possessione, e soprattutto dei momenti che l’hanno preceduta (Deren 1997, pp. 292-308). A prescindere dall’effettiva ‘autenticità’ delle possessioni[10] – che nel sistema-voodoo sono effettivamente “autentiche”, nel senso di “fondanti” – ciò che interessa sottolineare è il rapporto fra loa e fedele che viene ad instaurarsi. Autosuggestionato, attore consapevole di un gioco delle parti, o realmente posseduto, il “cavallo” segue le indicazioni del suo “cavaliere” divino anche quando esse lo pongono in situazioni socialmente imbarazzanti o pericolose (a cui pur vengono posti dei taciti limiti dalla comunità, difficilmente oltrepassati).

L’“interpretazione” del loa di turno avviene inoltre secondo le caratteristiche del “cavallo”. Un uomo e una donna saranno “cavalcati” differentemente da uno stesso loa (solitamente la possessione riguarda un loa del proprio genere, ma non è una regola costante), così come una mambo posseduta agirà diversamente rispetto a una hunsi sua sottoposta. Si potrebbe affermare, pur con una certa dose di approssimazione, che ciascun loa abbia un suo “canovaccio” da seguire, fatto di specifiche richieste (ogni loa apprezza un particolare cibo, o del tabacco, o altro), movenze particolari ed espressioni ricorrenti. Su questa base, piuttosto stringente in linea di massima, si innestano alcune peculiarità del “cavallo” di turno.

Si consideri ora un videogiocatore, alle prese con una proiezione – per riutilizzare l’espressione citata in precedenza – sul proprio avatar. Quest’ultimo va a rispecchiare i pensieri, i desideri, i gusti, o anche l’aspetto fisico dell’individuo al di fuori dello schermo, temporaneamente calatosi in lui, o che l’ha addirittura plasmato per tale funzione, e ritorna l’immagine dell’avatāra, del dio incarnato, pur qui in una “disincarnazione” digitale. Si può, adesso, sostituire i loa a Viṣṇu, e i fedeli voodoo alle sue incarnazioni.

L’immagine – perché, in entrambi i casi, di immagini si tratta – guadagna in efficacia, in termini di parallelismo. La natura della possessione loa – multipla, scambievole, di differente durata ma spesso piuttosto breve – rispecchia la natura di un videogiocatore, abituato a ‘saltare’ frequentemente da un personaggio all’altro, andando anche a controllare personaggi prima impiegati da altri videogiocatori. Più giocatori per più avatar, con legami preferenziali ma non univoci, proprio come i fedeli voodoo sono spesso “prediletti” da un determinato loa, ma possono essere “cavalcati” anche da altri, così come quel loa può “cavalcare” altre persone. Viṣṇu, al contrario presenta incarnazioni di volta in volta differenti ed uniche.

Inoltre, anche laddove è il movimento della proiezione a prevalere, l’avatar videoludico ha spesso alcune caratteristiche basilari che non possono essere modificate. Un esempio: è possibile modificare l’etnia, l’aspetto, il genere e le origini del protagonista di Dragon Age: Origins, così come è possibile fargli compiere una sequela di scelte morali differenti; non si può tuttavia, fra le altre cose, evitare che il personaggio divenga un Custode Grigio. Ogni origine, una volta selezionata, incasella il protagonista in un determinato schema, piuttosto che in un altro, senza grosse variazioni interne: i personaggi “Elfo Dalish” avranno tutti un background quasi uguale, all’interno del loro gruppo, mentre saranno totalmente differenti dagli appartenenti al gruppo “Nobile Umano”.

Andando a controllare il proprio avatar, ciascun videogiocatore lo farà agire in base ai propri desideri, pertanto uno stesso personaggio, controllato da due persone differenti, agirebbe in maniera diversa, modellandosi di volta in volta sul suo controllore[11]. Al tempo stesso, però, lo stesso giocatore, andando a controllare un Elfo Dalish o un Nobile Umano, agirà in modo differente, anche soltanto a livello microscopico, pur mantenendo le stesse idee e gli stessi interessi. I giocatori sono i “cavalieri” voodoo, il loa, che controllano di volta in volta differenti “cavalcature”, immettendovi la propria personalità per tutta la durata della possessione, ma presentando anche – pur minimi – adattamenti alla natura del proprio “cavallo”.

Nel movimento opposto, l’identificazione, i ruoli sono invertiti, o invertibili. Se nel parallelismo precedente la possessione voodoo è stata considerata come fenomeno autentico, in questo caso essa ritorna come finzione. Il fedele saprebbe – anche solo inconsciamente – che durante la possessione è tenuto ad interpretare il loa di turno in base alla sua personalità. Se “cavalcato” da Baron Samedi, ad esempio, farà in modo di procurarsi degli occhiali scuri, mentre una “interpretazione” di Damballah Wedo lo porterà a gettarsi in acqua e arrampicarsi sugli alberi, e una di Ogun (o Ogoun) Badagris vedrà un frequente ricorso ad espressioni come “Foutre tonerre!” o “Grains moin fret![12].

Così anche il videogiocatore, in differenti gradazioni a seconda della libertà concessagli, agirà in base al ruolo che viene chiamato ad interpretare. Questo come generica tendenza, e non legge immutabile, naturalmente, anche in vista della differenza fondante che rimane col culto voodoo. Per i fedeli la possessione è parte di una ritualità, anche quando si svolge in contesti quotidiani, e mantiene una sua sacralità; l’atto del videogiocare è un rituale a bassa intensità: «cerimoniali instant, fondati non tanto sulla condivisione di valori quanto sul radicarsi, magari effimero ma dilagante, di abitudini comuni, nella vita urbana come nei momenti di pausa sociale dal lavoro» (Ortoleva 2009, p. 84. Corsivo dell’autore).

Pertanto è possibile ‘giocare’ col proprio ruolo – cosa che un fedele del voodoo posseduto non può fare con leggerezza – andando tuttavia perlomeno ad incrinare quel cerchio magico che caratterizza un «mondo provvisorio entro il mondo ordinario, destinato a compiere un’azione conchiusa in sé» (Huizinga 2002, p. 13). Al di fuori di queste quasi fisiologiche differenze l’analogia rimane. Il personaggio videoludico, a partire dal suo stesso aspetto, offre al giocatore un implicito ‘canovaccio’ che sarà poi messo in ruolo in differente misura. Banalmente, un personaggio vestito di nero, dallo sguardo truce e dai trascorsi ambigui porterebbe magari il videogiocatore ad avere un approccio più subdolo e aggressivo, rispetto a un leale paladino dall’armatura lucente. Questo non perché il giocatore abbia particolari pulsioni violente, o predilezioni per un approccio “malvagio” al gioco[13], ma perché in quel determinato momento è chiamato a mettere in scena quel tale ruolo, così come un adepto voodoo può ritrovarsi “cavalcato” da qualche loa violento e “oscuro”.

In conclusione il parallelismo presentato non è esattamente combaciante, né probabilmente proponibile come alternativa alla terminologia già impiegata, tecnica o di uso comune che sia, in vista anche della sua minore immediatezza. Rimane però una casualità potenzialmente affascinante, questa doppia somiglianza che pone il videogiocatore ad essere, al tempo stesso, “cavallo” e “cavaliere” di una figura virtuale, tramite una corrispondenza bidirezionale nella messa in ruolo.

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[1] «Gli Ewe e i Fon sono popoli linguisticamente e culturalmente imparentati che vivono in Africa occidentale, lungo la costa e nell’entroterra del Benin (antico Dahomey), del Togo e del Ghana orientale. Sono circa tre milioni di persone; vivono per la maggior parte in città o in grandi villaggi e dipendono dalla pesca, da coltivazioni intensive e dall’artigianato […]. Il culto degli antenati, che è ritenuto necessario per la perpetuazione del clan, è l’elemento centrale dell’organizzazione sociale dei Fon e di molte delle loro attività religiose. […] All’incirca ogni dieci anni, inoltre, gli antenati vengono “stabiliti”, cioè divinizzati come tovudu (divinità della famiglia)» (Gilbert 2009, corsivo dell’autore.)

[2] Cfr. anche Lovell (2006) e McCarthy Brown (2005).

[3] L’insistenza sull’idea di un accrescimento, di un assommarsi di immagini e concetti intorno ad un nucleo, di “accrezione”, non è casuale, ma si ricollega ai santuari gorovodu (e non solo), costituiti da oggetti progressivamente ricoperti di sangue e materia organica fino ad essere irriconoscibili. Così come in questi santuari, detti tron, l’originario nucleo interno è irraggiungibile o non identificabile, allo stesso modo le comuni idee sul voodoo si basano su opinioni ed immagini stratificate intorno ad un ‘cuore’ pulsante ma spesso inconoscibile. Sul gorovodu ed i suoi rituali cfr.Rosenthal (1998). Sul lato visibile e nascosto degli altari si veda anche Lalèyê (2009).

[4] Alessandra Brivio (2012 p. 40) ricorda come esempi le pellicole Il serpente e l’arcobaleno (The Serpent and the Rainbow, Wes Craven, 1988; tratto dall’omonimo libro di Wade Davis) e Ho camminato con uno zombi (I Walked with a Zombie, Jacques Tourneur, 1943), ma si può citare come precursore anche il celebre L’isola degli zombies (White Zombie, Victor Halperin, 1932), ambientato ad Haiti ed indicato come il primo film a presentare la figura dello zombie.

[5] Fermo restando quanto affermato, esistono loa con valenze “demoniache”, come Marinette Bwa Chech (Marinette dalle braccia secche), signora del fuoco e dei lupi mannari – che nel voodoo sono esclusivamente di sesso femminile e non corrispondono all’immaginario tradizionale – e divoratrice di uomini (Mennesson-Rigaud e Denis 1947).

[6] Fra le definizioni di “simulacro”: «Riproduzione o imitazione di un oggetto, di un corpo; sagoma […]. Esercitazione o gara spettacolare che simula il combattimento o ne è la trasposizione ludica […]. Simulazione o imitazione di un gesto, di un atteggiamento, di un’azione […]. Figura, immagine di un ente materiale o ideale, che attua in modo imperfetto o provvisorio o che richiama per somiglianza o per imitazione […]. Apparenza, parvenza; indizio o presenza ridotta e appena rilevabile di una condizione ambientale o stagionale o di un’istituzione o di un valore politico o morale […]. Fantasma, spettro, ombra, spirito di un trapassato […] per estens. Apparenza illusoria o fittizia, anche per opera di magia […]. Immagine riflessa in uno specchio o nell’acqua […]. Invenzione fantastica o della mente» (Voce Simulacro, 1998).

[7] «Medic. Sostituzione di una parte anatomica mancante con una artificiale avente analoga funzionalità – In senso concreto: struttura fabbricata un tempo con legno, più recentemente con metallo e resine plastiche, che serve a tale scopo […]. Figur., con riferimento alle facoltà intellettuali indebolite o mutile» (Voce Pròtesi, 1988).

[8] Brevemente: una identità virtuale può essere “reale”, in una certa ottica, per il suo fruitore, tanto quanto la sua identità non-virtuale. Waggoner propone anche il termine verisimulacratude per descrivere il processo con cui gli utenti entrano a far parte di un mondo simulacrale virtuale (Waggoner 2009).

[9] Ad esempio nel film Ben X (Ben X, Nic Balthazar, 2007) il protagonista, affetto dalla sindrome di Asperger, gioca tutti i giorni ad Archlord. Il suo doppio virtuale, dai lineamenti simili ai suoi, è un potente eroe che ha compiuto qualsiasi impresa, mentre lui nella quotidianità non-virtuale subisce continui assalti da alcuni bulli e fatica a relazionarsi con altre persone.

[10] Già Métraux aveva ampiamente trattato l’argomento, escludendo spiegazioni di carattere psicopatologico e simili, arrivando ad affermare che «lo stato di possessione è dunque spiegabile con il clima intensamente religioso vissuto degli ambienti voduisti» (Métraux 1971, p. 141).

[11] Anche in presenza di scelte assolutamente identiche, all’interno delle opzioni ‘fisse’ di scelta (dialoghi, decisioni per la trama, ecc.) perlomeno il racconto ludico sarebbe sempre diverso, andando ugualmente a rispecchiare un utente piuttosto che un altro. Far soffermare il proprio avatar in città a parlare, piuttosto che tornare subito in missione, è un – banale – esempio di due differenti racconti ludici, che corrispondono a differenti interessi e personalità da parte dei due ipotetici videogiocatori.

[12] Deren (1997, pp. 132-155). Le due espressioni citate, che Ogun impiega come intercalare, sono rispettivamente traducibili come “tuoni e fulmini!” e “i miei testicoli sono freddi!”.

[13] Anche perché, nei videogiochi che prevedono scelte morali, solitamente gli utenti optano per il percorso “buono”, almeno alla prima giocata (Lange 2014).

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