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Disabilità e malattia in Mass Effect

NOTA: qui di seguito riporto un estratto del mio libro Interpretare Mass Effect: venticinque concetti per viaggiare nella fantascienza.

Uno dei venticinque “concetti” del titolo è proprio quello che riguarda disabilità e malattia.

Ho pensato di riportarlo qui, sul mio sito, per renderlo disponibile a tutti quanti.

Peraltro nel 2024 avevo avviato un piccolo progettino legato a disabilità e videogiochi, tra rappresentazione e accessibilità. Era nato in seguito a diverse tesi di laurea più o meno legate all’argomento che ho seguito nel corso dell’anno.

Il progetto è momentaneamente fermo. Però, chissà, questa condivisione potrebbe essere uno spunto per farlo ripartire.

Staremo a vedere. Nel frattempo, buona lettura.

Joker di Mass Effect

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Disabilità e malattia

In che modo Mass Effect parla di disabilità?

Per quanto non sia certo il primo argomento che viene in mente quando si pensa a questa serie, la rappresentazione della disabilità tocca nel profondo anche Mass Effect. Se ci si ferma un attimo a riflettere, gli esempi sono effettivamente molteplici e, nel corso del tempo, hanno ricevuto un gran numero di apprezzamenti, insieme a qualche perplessità. Come si vedrà a breve, molte voci differenti considerano Mass Effect un grandissimo esempio di rappresentazione e inclusività, quando si parla di persone diversamente abili. Lo è soprattutto perché questi individui presenti nella serie sono figure complesse, sfaccettate, a tutto tondo, piene di interessi e di tratti caratteriali differenti. In mezzo a questo ricco quadro di caratteristiche c’è anche la loro disabilità. Niente tokenism, dunque: non sono inseriti solo per spuntare una casella e indicare l’inserimento di una persona diversamente abile, cosa che avviene in numerose storie che propongono una inclusività di facciata. Un personaggio token è facilmente riconoscibile perché quasi tutta la sua personalità è costruita intorno a quello. Come un personaggio queer che parla esclusivamente del suo essere queer, senza avere alcun altro tratto che possa renderlo interessante, memorabile e, in ultima istanza, umano.

Ragionando su Mass Effect, si parla di disabilità su due differenti livelli: uno legato ai singoli individui e uno alle specie. Cominciando dal primo punto, è possibile segnalare diversi personaggi, tra cui il pilota Joker, l’assassino Thane Krios e lo stesso Shepard. C’è però anche chi (per esempio Gumeny, 2021) allarga di molto la lista, inserendo anche personaggi come Liara T’Soni, che rappresenterebbe una persona neurodivergente per la sua hyperfixation. Senza allargarsi troppo, vale qui la pena osservare almeno i personaggi più frequentemente nominati quando viene affrontato l’argomento, partendo da Joker, il pilota della Normandy.

Joker ha la sindrome di Vrolik, o osteogenesi imperfetta, che rende le sue ossa estremamente fragili. Anche con la futuristica tecnologia mostrata nel gioco, sembra non esistere una cura completa per la sua condizione, per cui cammina a fatica. Il suo stato di salute viene sottolineato più volte nel corso della trilogia e, come è possibile leggere in The Art of Mass Effect (Aa. Vv., 2007), inizialmente avrebbe dovuto avere un aspetto malaticcio e sofferente. Nella versione definitiva del gioco, invece, l’accenno alla sua condizione fisica è accompagnato da altrettanto continui rimandi alle sue abilità. Viene precisato fin da subito che Joker è un abilissimo pilota e questo rimane il suo tratto distintivo. Oltre a questo, deve aver ricevuto un addestramento militare di base, visto che è anche capace di utilizzare con una certa efficacia un fucile d’assalto. Per quanto sia molto raro vederlo combattere, nel finale di Mass Effect 2 lo si vede mentre spara ai Collettori, coprendo la ritirata di Shepard.

Sempre in Mass Effect 2, ci si trova anche davanti a una brevissima sequenza in cui si controlla Joker al posto di Shepard, quando la Normandy viene presa d’assalto dai Collettori mentre la squadra del comandante è in missione. Qui Joker, disarmato, deve attraversare la Normandy evitando i nemici, fino a raggiungere il sistema di controllo che permetterà a IDA, l’intelligenza artificiale dell’astronave, di assumere il pieno controllo della Normandy per spazzare via gli invasori.

In linea di massima, le pubblicazioni divulgative (come Gina, 2020; Dax, 2021; Gumeny, 2021) hanno abbondantemente lodato Joker, come esempio positivo di rappresentazione della disabilità. La sua condizione non viene nascosta o taciuta, ma non rappresenta nemmeno l’unico tratto della sua personalità, né gli impedisce di ricoprire un ruolo di grande importanza. Le pubblicazioni accademiche, invece, mostrano una maggiore discrepanza di opinioni sulle scelte rappresentative del videogioco, compreso il caso di Joker. Jerreat-Poole (2020) è tra coloro che, anche su questo versante, lo considerano un esempio virtuoso:

As a disabled person, Joker is not stereotyped or tokenized. His disability, while present, is not centre-stage. He has a distinct personality–he is playful, sarcastic, and witty–and engages with other crew members in casual banter. In ME3, his narrative arc features a romance with the ship’s AI. He is not treated with pity or disgust, or viewed as a charity case, a burden, a freak show exhibit, or asexual (a trope that continues to marginalize both disabled bodies and asexual bodies)» (Jerreat-Poole, 2020).

Il punto forse più interessante da sottolineare, nel suo discorso, è il fatto che Joker non sia asessualizzato. Tra i grandi assenti, quando si parla di rappresentazione dei corpi disabili, c’è infatti proprio la sessualità del personaggio. Soprattutto in ambito videoludico, questo punto è quasi sempre ignorato, tanto che una delle pochissime eccezioni degne di nota è Katawa Shoujo (Four Leaf Studios, 2012), una visual novel realizzata da un gruppo di utenti di 4chan, in cui si parla di un ragazzo delle superiori che finisce in una scuola per persone diversamente abili, dove avrà modo di portare avanti una relazione amorosa con una delle varie ragazze lì presenti. Nonostante la sua origine (per molte persone, 4chan non è un buon biglietto da visita), il consenso generale (Champlin, 2014; Ciesla, 2019, p. 95) è quello di trovarsi davanti a uno dei pochi videogiochi che tratta questo argomento – così complesso, raro e difficile da approcciare – senza ridurre il tutto alla feticizzazione spicciola. Certo, in Mass Effect l’argomento della sessualità di Joker è solo sfiorato e l’oggetto del suo amore è IDA, una intelligenza artificiale dotata di un corpo robotico, per cui resta lontano da Katawa Shoujo, ma sembrerebbe comunque procedere nella direzione giusta.

In altri casi invece, come i contributi di Joyal (2012) e Krampe (2018), viene segnalata la perdita dell’alterità di Joker nel momento in cui ci si trova a controllarlo, durante gli eventi di Mass Effect 2. In questo caso la sua disabilità passa in secondo piano ed egli si avvicina al canone “eroico”. Un “eroismo” sottolineato anche dalla sua corporatura: ora che non è seduto e si ha modo di osservarlo bene, infatti, non ha un fisico poi molto diverso da quello di Shepard. La scena è dunque collocabile su una scala di grigi. Da un lato, l’andatura instabile di Joker può essere un modo per empatizzare meglio – seppur per un istante – con un personaggio diversamente abile, visto che se ne assume il controllo. Dall’altro lato, però, il corpo e le azioni di Joker apparirebbero fin troppo allineate alla “norma” per poter parlare di una effettiva rappresentazione della disabilità. Il termine che viene utilizzato, in particolar modo, è supercrip, che ha due impieghi differenti. Il primo indica una rappresentazione in cui un personaggio diversamente abile compie imprese fuori dall’ordinario o è dotato di veri e propri superpoteri. Nel secondo caso, invece, si parla di un personaggio che appare come una sorta di supereroe, o che viene elogiato e celebrato, per il fatto stesso di vivere la sua vita e raggiungere degli obiettivi, lasciando intendere che ci sia qualcosa di “eroico” nel fare ciò che fanno gli altri. Simili discorsi e rappresentazioni derivano spesso da ottime intenzioni, ma non sono sempre apprezzate dalle persone diversamente abili. Le discussioni sul perché considerare Joker e altri personaggi di Mass Effect (tra cui Kaidan Alenko) dei supercrips sono varie. Tra i vari contributi sull’argomento, ce n’è uno di Simon Ledder (2023) che ritiene Joker un supercrip nella prima accezione del termine per quasi tutto Mass Effect, visto che è uno dei migliori piloti dell’umanità, per cui è un individuo fuori dal comune che, incidentalmente, ha anche la sindrome di Vrolik. Quando però si assume il controllo di Joker, egli sarebbe presentato (sempre secondo Ledder, 2023, p. 61) come un supercrip nella seconda accezione del termine. Verrebbe esaltato per il semplice fatto di aver camminato attraverso la Normandy e per aver fornito il pieno controllo dell’astronave a IDA. Certo, è una situazione molto pericolosa, ma rispetto alle imprese di Shepard e della sua squadra è un gesto quasi ordinario, soprattutto se si esce dalla componente narrativa e si osserva l’interazione con il gioco. Non c’è effettivamente molto da fare, oltre a premere il pulsante o lo stick che fa avanzare il personaggio.

Passando a Shepard, il discorso è stato principalmente legato alle sue cicatrici, che ottiene in Mass Effect 2 dopo essere stato riportato in vita da Cerberus con il Progetto Lazarus. Mantenendo un approccio paragon, queste cicatrici vanno man mano a scomparire, mentre giocando renegade diventano sempre più evidenti. Da un lato, c’è chi vede questo cambiamento come una scelta potenzialmente abilista, che richiama gli stereotipi del malvagio deforme, con le cicatrici che segnalano la sua crudeltà e la sua perdita di umanità (Ledder, 2023). Dall’altra parte però c’è anche chi legge tutto ciò in modo molto meno monodirezionale, parlando di una rappresentazione almeno parzialmente riuscita, per quanto riguarda i personaggi con le cicatrici (Aroni, 2023). Sempre a proposito di Shepard, è vero che il videogioco tende ad andare in questa direzione, ma offre anche la possibilità di giocare come paragon mantenendo le cicatrici, scelta che va a spezzare l’accostamento con la malvagità. Intorno a Shepard ci sono poi personaggi di vario genere con il volto coperto di cicatrici. Se per l’Uomo Misterioso rappresentano la corruzione, per Garrus Vakarian sono il simbolo del suo eroismo. Non solo: Garrus scherza spesso insieme a Shepard sulle cicatrici che ha sul volto, mostrando un atteggiamento positivo, in cui non si percepisce solo come fisicamente menomato. Certo, bisogna anche riconoscere (come segnala sempre Aroni, 2023), che cicatrici come quella di Garrus non vanno a modificarne profondamente i connotati, non appaiono “disgustose”. Il che è anche comprensibile, visto che il turian rimane pur sempre una delle possibili opzioni romantiche per Shepard, per cui si è voluto mantenere il suo fascino.

Poi c’è Thane Krios, un altro compagno di squadra, reclutabile in Mass Effect 2. Thane è uno dei migliori assassini della galassia, ma è destinato a morire per via della malattia che lo affligge, la sindrome di Kepral. Si tratta di un malessere immaginario che colpisce la sua specie, i drell, ma che ricorda per molti aspetti la fibrosi cistica. Thane è un personaggio molto apprezzato e ha suscitato sentimenti contrastanti, a volte anche in una stessa persona. È per esempio il caso di Elizabeth Rogers (2019) che ha scritto un articolo su «AbleGamers» in cui parla dell’assassino drell, identificandosi in lui per via della sua malattia. Da un lato, Rogers sottolinea il dispiacere per la morte di Thane, che come tanti altri personaggi malati o disabili finisce per essere condannato a una fine prematura. D’altra parte, però, segnala anche gli elementi che rendono apprezzabile la rappresentazione del personaggio. Per cominciare, Thane non muore per la sua malattia, ma compiendo un’azione eroica in cui affronta Kai Leng per difendere il consiglio. Gravemente ferito, viene trasportato in ospedale, dove si spegne davanti al figlio Kolyat e a Shepard. In secondo luogo, Rogers sottolinea che è meglio così, rispetto al classico scenario in cui viene improvvisamente trovata una cura miracolosa. È quel che avviene anche con Joker. Non ci sono missioni (primarie o secondarie) in cui salta fuori una cura per la sindrome di Vrolik o di Kepral. Come detto, l’idea che un personaggio malato esista solo con l’idea di essere curato (e che la cura sia il traguardo ultimo della sua vita) è insidiosa (Rogers, 2023).

Thane rappresenta anche un ideale punto di passaggio alla discussione sulle specie. La sindrome di Kepral, infatti, è molto diffusa tra i drell. Questa malattia batterica polmonare è derivata dalla differenza tra il clima desertico di Rakhana, il loro pianeta di origine, e Kahje, il mondo degli hanar su cui alcuni di loro sono andati a vivere. Rakhana era un pianeta ormai morente e sovrappopolato. I drell si sarebbero probabilmente estinti senza l’intervento degli hanar, che hanno portato diversi drell sul loro mondo. Kahje, però, è un pianeta perennemente avvolto dalle nubi e con un oceano che copre il 90% della superficie, con pochissima terra emersa. Un ambiente molto diverso dai deserti di Rakhana, che ha reso necessaria la costruzione di città-cupola con un clima controllato, perché l’umidità del pianeta era troppo elevata per i drell. Nonostante ciò, molti di loro sono stati colpiti dalla sindrome di Kepral.

Oltre ai drell ci sono i quarian e i krogan. I primi sono costretti a vivere nelle loro tute ambientali, perché il lungo periodo trascorso nell’ambiente sterilizzato della flotta migrante ha distrutto il loro sistema immunitario. Una semplice malattia o infezione può rivelarsi facilmente fatale, per loro. Nonostante abbiano un fisico robusto, che li rende più coriacei di umani, asari e salarian, questa condizione li fa apparire estremamente deboli. La tecnologia permette loro di compensare la fragilità del loro sistema immunitario, grazie a tute estremamente avanzate, dotate di numerosi sistemi di sicurezza. Appena un quarian viene ferito, la zona colpita viene isolata per evitare il diffondersi dell’infezione, vengono somministrati antibiotici e si cerca di fermare immediatamente il potenziale pericolo. Senza le loro tute, però, sarebbero destinati a morire in poco tempo o si troverebbero al massimo confinati in ambienti sterilizzati e ipercontrollati. Una condizione che trova facili parallelismi con diverse malattie reali. I krogan, invece, sono stati sterilizzati dalla genofagia, che fa morire la stragrande maggioranza dei nuovi nati. Un’operazione di ingegneria genetica, in questo caso, diversa dalle condizioni ambientali che hanno colpito drell e quarian, ma che ha comunque finito per produrre una intera specie di “malati”.

Per i krogan c’è una possibile cura, se Shepard decide di non sabotarla. I quarian dovrebbero poter togliere le tute col tempo, tornando a vivere sul loro pianeta natale. Per i drell, al momento, non esiste una cura, anche se diversi scienziati ci stanno lavorando. In tutti e tre i casi, scegliendo la Sintesi, malattie e disabilità di ogni sorta scompaiono. Una cura miracolosa, “magica”, valutata in vario modo, come accennato in precedenza. A parte il finale Sintesi, per i quarian la “cura” si abbina a un ideale ritorno alla natura, nel loro pianeta di origine, potendo mettere da parte la tecnologia che li ha tenuti in vita ma che ha anche distrutto il loro sistema immunitario. Per drell e krogan, invece, è la tecnologia a intervenire.

Le loro vicende possono essere un’occasione per ricordare il paradossale e complesso rapporto tra tecnologia e disabilità che si è visto sempre di più, nel mondo reale, a partire dal Novecento. La tecnologia offre sempre più strumenti per curare malattie e per fornire strumenti compensativi ai diversamente abili (si pensi alle varie forme di protesi, sempre più variegate e avanzate). È però la stessa tecnologia a generare sempre più disabilità. Esplosioni, incidenti sul lavoro, radiazioni, pesticidi che colpiscono i feti e moltissimo altro ancora. In questo scenario, «l’atavica paura della disabilità che prima la confinava come “qualcosa dell’altro”, alla luce di questi cambiamenti diventa sempre di più “qualcosa che può riguardare anche me”» (Schianchi, 2012, p. 208).

Anche per questo è bene che ci siano rappresentazioni variegate e non banali nei media, come quelle offerte da Mass Effect. Una storia che ha il suo focus da tutt’altra parte, ma che può facilmente portare a interrogarsi anche sulla disabilità e la malattia, senza cadere nel citato “tokenismo”, nel limitarsi a mettere delle pedine la cui unica caratteristica rilevante è la loro disabilità, per aggiungere una spunta sulla casella dell’inclusività e darsi una pacca sulla spalla. Qui come altrove, Mass Effect ha saputo portarsi avanti sui tempi, senza nemmeno troppi proclami.

Bibliografia

Aa.Vv. (2007): autori vari, The Art of Mass Effect, Prima Games, 2007.

Aroni (2023): Gabriele Aroni, A Missile to the Face. Scarred Characters in Mass Effect 2, in Katie Ellis, Tama Leaver, Mike Kent (edited by), Gaming Disability. Disability Perspectives on Contemporary Video Games, Routledge, New York – London 2023, pp. 81-91.

Champlin (2013): Alexander Champlin, Playing with Feelings. Porn, Emotion, and Disability in Katawa Shoujo, «Well Played», 3, 2, 2014, pp. 63-81.

Ciesla (2019): Robert Ciesla, Game Development with Ren’Py. Introduction to Visual Novel Games Using Ren’Py, TyranoBuilder, and Twine, Apress, New York 2019.

Dax (2021): Dax, Disabled gaming: the representation of disability in Mass Effect, «Disability Horizons», 27/09/2021, https://disabilityhorizons.com/2021/09/disabled-gaming-mass-effect-and-disability-representation/.

Gina (2020): Gina, Mass Effect Features Gaming’s Best Portrayal of Disability, «CBR», 12/06/2020, https://www.cbr.com/mass-effect-best-disability-representation/#:~:text=Mass%20Effect%20is%20set%20in,his%20skills%20as%20a%20pilot..

Gumeny (2021): Eirik Gumeny, Mass Effect Is Kind of a Utopia for the Chronically Ill, «Wired», 31/08/2021, https://www.wired.com/story/mass-effect-games-trilogy-disabilities-utopia/.

Jerreat-Poole (2020): Adan Jerreat-Poole, Sick, Slow, Cyborg: Crip Futurity in Mass Effect, «Game Studies», 20, 1, 2020.

Joyal (2012): Amanda Joyal, Mass Effect’s Joker, the supercrip, and the normate body, «Reconstruction: Studies in Contemporary Culture», 12, 2, 2012.

Krampe (2018): Theresa Krampe, No Straight Answers: Queering Hegemonic Masculinity in BioWare’s Mass Effect, «Game Studies», 18, 2, 2018.

Ledder (2023): Simon Ledder, The Dis/ability of the Avatar. Vulnerability versus the Autonomous Subject, in Katie Ellis, Tama Leaver, Mike Kent (edited by), Gaming Disability. Disability Perspectives on Contemporary Video Games, Routledge, New York – London 2023, pp. 55-68.

Rogers (2019): Elizabeth Rogers, The Problem and Joys of Thane from Mass Effect, «AbleGamers», 20/03/2019, https://accessible.games/how-mass-effect-2-made-me-feel-represented-in-video-games/.

Schianchi (2012): Matteo Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare, Carocci, Roma 2012.

Cotoletta8bit, il croccante evento sull’indie gaming

La prima edizione di Cotoletta8bit si è conclusa alla grande!

Segnaleremo quando ci sarà la prossima edizione.

talk con Giulia Martino
La foto di fine evento
la consegna della Cotoletta d'oro


Cotoletta8bit è l’evento frutto di un progetto che ha lo scopo di valorizzare la scena dei videogiochi indie sul territorio di Milano.
Cotoletta8bit è al contempo una festa e un momento di condivisione per gli appassionati del panorama indie, e una preziosa opportunità di networking per i programmatori e i diversi attori di questo settore.
L’evento è stato ospitato da Nemiex (Viale Piemonte, 41, 20093, Cologno Monzese) il 14 settembre 2024, dalle 12.00 alle 19.00 ed interamente gratuito dal momento che nasce come iniziativa no profit.

Cotoletta8bit

Chi siamo?

Siamo il Collettivo 8bit, un gruppo informale che nasce dalla passione e dall’esperienza del Professore Francesco Toniolo e dello sviluppatore Salvatore Liotta, e poggia sulle abilità di “antialiasing” per eventi a bassa risoluzione (perché sì, anche gli eventi low budget possono essere resi memorabili e meravigliosi) dei due markettari Fabio Putortì e Mattia La Licata.

Francesco Toniolo
Salvatore Liotta
Fabio Putortì
Mattia La Licata

Cos’è Cotoletta8bit?

Cotoletta8bit è un evento a tema videogiochi indie che sarà al contempo un’occasione festiva e di condivisione per gli appassionati, e una preziosa opportunità di networking per programmatori e attori specifici di questo settore.

Perché Cotoletta8bit?

Questo nome è frutto di un’attenta riflessione durata circa 16 secondi. Come facciamo a dire Milano e videogiochi indie senza dire Milano e videogiochi indie? Ecco, un giorno ci ringrazierete per aver interrotto questo trend di eventi con “MI” nel nome…

ATTENZIONE: l’evento non prevede gare di frittura, cotolettate in faccia o sfide alla man vs food. La parola Cotoletta è utilizzata unicamente per il suo valore etimologico che rimanda alla City.

Dove, quando e quanto costa?

L’evento si è tenuto al Nemiex (Viale Piemonte, 41, 20093, Cologno Monzese), il 14 settembre 2024 dalle 12:00 alle 19:00 ed è stato interamente gratuito. Durante la giornata sarà possibile acquistare cibo e bevande direttamente dal bar del Nemiex.


cotoletta8bit

Indika è il videogioco

Indika è il videogioco.

Il titolo non è sbagliato. Non volevo scrivere “Indika è un videogioco”, oppure “Indika e il videogioco” o qualche altra cosa del genere.

Sono convinto che, in un futuro più o meno prossimo, non mancheranno coloro che utilizzeranno questo videogioco per definire il medium stesso. Per cui mi porto semplicemente avanti, iniziando a definire la questione.

Indika

Alla base di tutto ciò ci sono alcuni spunti di partenza. Uno di questi è l’articolo di Giulia Martino su «Final Round» in cui parla di Indika, soffermandosi più volte su numeri e punteggi. Soprattutto, quando l’autrice parla di un momento all’inizio del gioco, in cui bisogna fare avanti e indietro per prendere l’acqua da un pozzo. Scrive allora che «In quel tragitto ripetuto più e più volte, gli sviluppatori di Odd Meter rivendicano il diritto di un videogioco di non “divertire” – una delle parole più abusate da parte di chi parla di videogiochi. Per essere compreso, Indika richiede necessariamente di espandere il nostro vocabolario, senza fossilizzarci su termini triti, logori, limitanti per ciò che il gioco è e può essere: un veicolo potentissimo per la registrazione e la trasmissione di idee ed esperienze umane».

Un videogioco atipico, di cui è effettivamente difficile trovare dei predecessori all’interno del medium. Subito sotto, sempre Giulia Martino prosegue dicendo che «Per molti versi, l’opera di Indika non ha precedenti nel panorama videoludico. Non stupisce che essa guardi, molto spesso, al cinema e alla letteratura».

A volte, serve proprio un po’ di distanza per poter riflettere al meglio su sé stessi. Lo ricordava Machiavelli quando, all’inizio del Principe, diceva che «coloro che disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra i monti». Se sei sulla cima della montagna hai una chiara visione della vallata, ma non del monte. E viceversa.

Se, allora, Indika è un videogioco tutto sommato “poco videoludico”, può essere proprio questo il giusto distacco con cui leggere il medium nelle sue caratteristiche di fondo.

Prima di fornire la risposta, tuttavia, devo introdurre un paio di altri concetti. Seguitemi, perché dobbiamo lasciare per un attimo Indika in sospeso.

Il cielo è un velo. Il velo nasconde e rivela

I medievali amavano false etimologie e accostamenti basati su giochi di parole. Una di queste legava, ai loro occhi, velum e coelum, ovvero “velo” e “cielo”. Con un altro passaggio, il coelum era legato a celare (Gérard de Champeaux, Sébastien Sterckx, I simboli del Medio Evo, Jaca Book, Milano 1981).

Velo, cielo, celato. Che il cielo sia un velo disteso sulla terra è un’immagine ricorrente, che presenta tutta una serie di variazioni sul tema (per esempio il “manto della notte”). È più interessante il fatto che il velo, ma anche il cielo, siano fatti per celare, per nascondere.

Quindi, se Dio ha steso il velo del cielo sul mondo, lo ha fatto per porre un tetto (o meglio, verrebbe da dire una tenda) sopra agli esseri umani, così che essi non vedessero il Paradiso. Eppure il cielo non si limita certo solo a nascondere, visto che rivela tante cose.

In effetti, se si osserva l’esperienza fatta con i veli (tra cui, come detto, rientra il cielo) ci si rende conto che essi nascondono e rivelano al tempo stesso. Proprio come gli schermi. Di questi ultimi e della loro duplice valenza ha parlato il filosofo Mauro Carbone nel suo libro Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (Raffaello Cortina, 2016). Il suo «archi-schermo» comprende in effetti anche più di un velo, tra cui il noto Velo del Tempio e l’altrettanto nota siepe dell’Infinito di Giacomo Leopardi.

Prendiamo quest’ultimo esempio. Come dice Leopardi nel suo componimento, quella siepe «da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», cioè copre la vista di buona parte dell’orizzonte. La siepe è dunque uno schermo, inteso come qualcosa che scherma, che copre. Subito dopo, però, il poeta aggiunge che «Ma sedendo e mirando, interminati /spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo». Proprio grazie a quel nascondimento, Leopardi immagina degli “interminati spazi” mentre sta seduto dietro alla siepe. Per cui quest’ultima è uno schermo in senso “cinematografico”, visto che mostra qualcosa.

Tornando ai veli, gli esempi potrebbero essere infiniti. Giusto per citarne uno, sempre famoso, il dipinto Donna che legge una lettera davanti alla finestra (1657) di Johannes Vermeer.

 Donna che legge una lettera davanti alla finestra

La destra del dipinto è coperta da una tenda scostata. Se essa venisse tirata, coprirebbe (schermerebbe) per intero la scena, impedendo di vederla. Ciò che occulta può anche mostrare, come nelle numerose rappresentazioni di Santa Veronica.

Santa Veronica

Indika è il velo

Torniamo a Indika. Tenendo a mente quanto detto sul velo che – come schermo – può rivelare o celare, la chiave di lettura dell’esperienza sta proprio qui, come modo per comprendere il medium stesso.

Indika è il velo del videogioco. Occulta e rivela.

Che cos’è un videogioco, se non una successione di gameplay loops? Essi si susseguono costantemente senza che ce ne si renda conto. Sono le azioni ripetute che facciamo. Dal microloop, il più “piccolo” e frequente, al core loop, ovvero il loop minimo che rende davvero significativa l’esperienza di gioco, che ci porta ad appassionarcene, ci mantiene legati a esso. E poi ci si sposta ancora più in là, verso loops ancora più ampi.

Il videogioco vive del nascondimento di tutto ciò. Tanto più se entra in gioco – per esempio – il monetization loop, quello che ti invoglia periodicamente ad andare nello store e a spendere dei soldi. Se il processo venisse alla luce, si incrinerebbe il meccanismo, come per qualsiasi altro loop.

Azioni ripetute, fini a sé stesse, perlomeno in termini estrinseci. Spesso sembra un lavoro e per certi aspetti lo è davvero (Matteo Lupetti, Videogiocare stanca, in «Menelique», 1, pp. 84-91). Non è un caso che, soprattutto quando si parla dei free-to-play di grande successo, le persone possono arrivare ad ammettere di sentirsi svuotate, dopo mesi e mesi di gioco portato avanti con dei ritmi lavorativi. Come George Yao, il campione di Clash of Clans (2012) che faceva la doccia con i suoi cinque iPhone imbustati per non perdere tempo. A un certo punto si è sentito prosciugato. Tutti i giorni ti connetti nello stesso momento, raccogli la stessa ricompensa, fai le stesse operazioni meccaniche…

Questo è un modo di giocare, un’esasperazione, ma il loop è sempre presente.

All’inizio di Indika, viene chiesto di andare a prendere per cinque volte l’acqua al pozzo, per riempire un barile. La classica missione videoludica. C’è però il diavolo a commentarla. Qui tocca a lui il disvelamento. La sua tentazione è proprio quella di sollevare il velo dell’attività ludica, scoprendo così il trucco.

Indika al pozzo

Così come, in altri momenti del gioco, viene chiesto di accumulare dei punti che sono in realtà inutili, come segnalano le scritte stesse che si leggono in giro. Il diavolo lega la ripetizione del lavoro e della preghiera, il che non è nuova come idea. Segnalo, giusto per rimanere in tema, questo passaggio da un contributo che parla di veli e di opere d’arte:

«Nella seconda metà del XII secolo fiorirono nuove scuole, botteghe ed estetiche legate al pensiero antropocentrico, che portò gli artisti a identificarsi con la propria opera e a considerarla parte integrande della propria vita. il tempo impiegato nella realizzazione dei dipinti divenne un frammento tangibile dell’esistenza. I giorni dedicati alla realizzazione delle opere si trasformarono nelle pagine di un diario scandito dalle pennellate, dai ritocchi e dalle velature che, con il loro lentissimo sovrapporsi, ritmarono le ore e i minuti della loro realizzazione. Il lavoro coincideva, secondo la regola benedettina di “hora et labora”, allo sgranarsi dei grandi di un rosario e l’opera che veniva realizzata era la testimonianza fisica e tangibile del lavoro svolto» (Andrea Busto, Rivelazioni e coperture. Il velo dipinto come metafora del tempo e della passione, in Id, Il velo. Tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e religione, Silvana Editoriale, Milano 2007, p. 11).

La preghiera è “utile” per la propria anima. L’opera realizzata è una «testimonianza fisica» del lavoro compiuto. Ma con il “lavoro” videoludico? La tentazione di dire che sia tutto inutile è forte. Lo si vede sempre in Indika, dopo che abbiamo raccolto per cinque volte l’acqua. Un’altra suora la rovescia per terra, vanificando il lavoro compiuto.

Dunque ciò che è stato fatto, videoludicamente, è tutto inutile? La tentazione del diavolo-Indika sembrerebbe questa. Si potrebbe obiettare in tanti modi, ricordando per esempio quanto si possa imparare durante un videogioco (James Paul Gee, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale, Raffaello Cortina, Milano 20013), ma almeno per un momento il velo ha rivelato. Si è sbirciato il loop, si è stati portati a soffermarsi sul suo funzionamento.

Indika e il velo (e il diavolo)

Se, come detto, Indika è un velo che prima occulta e poi espone le logiche videoludiche, Indika contiene anche un velo. Più di uno in realtà. Ma partiamo un attimo da lontano.

Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), nota per le sue “estasi”, testimonia che durante il noviziato fu tentata dai demoni in numerosissime occasioni. Un’esperienza condivisa da diversi altri religiosi, peraltro, per cui Indika sarebbe in buona compagnia. Ciò che racconta la santa nei suoi Colloqui è che, durante queste tribolazioni, si rivolse alla Vergine implorando soccorso. E la Madonna le apparve, consolandola e avvolgendola con un “velo bianchissimo”.

Un riferimento molto chiaro alla velatio, ossia la «copertura della testa della professanda da parte del vescovo nel corso di una cerimonia liturgica, [che] sintetizza il concetto stesso della professione religiosa» (Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto. Storie di donne e di veli, Il Mulino, Bologna 2016,p. 147).

Il velo, oltre che emblema della professione religiosa, rappresenta la protezione, come nel caso di Maria Maddalena de’ Pazzi, che si trova difesa dal “velo bianchissimo” che le offre la Madonna. Il velo è un elmo che protegge da tentazioni e insidie, come diceva Tertulliano (De virginibus velandis).

Ritornando all’articolo di «FinalRound», Giulia Martino scrive: «Il Diavolo è protagonista anche a livello di gameplay. A lui sono associati alcuni dei momenti più potenti del gioco: quando Indika compie un peccato, la voce del demonio si tramuta in uno sberleffo crudele, ammantato in una sconvolgente musica chiptune-dubstep. Il mondo si frattura, e sta a Indika ricomporlo pregando: lo si fa tenendo premuto un tasto, ma la suora, dopo un po’, inevitabilmente si stancherà, e tornerà ad ascoltare il Diavolo che la prende in giro per la sua mancanza di rettitudine, le prefigura la perdita del velo e la scomunica, le fa presente che tutti – suo padre, le sorelle, le persone che incontra – la odiano e la disprezzano».

Ci sarebbe molto da dire su Indika, sul suo passato, su come fu costretta a prendere i voti, sul suo conflitto interiore ecc., ma qui rimango sul discorso videoludico. Il velo protettivo rischia di cadere, insidiato dal dubbio e dal diavolo. Durante una partita, il giocatore è avvolto nei suoi “veli”. È dotato di una forte agency, compie delle scelte, è in uno stato di flow, ecc.

Velato in tal modo, continua a giocare tranquillo e sicuro. Talvolta asservito a un loop, ma ne è ben felice. Ci vuole un diavolo, come accennato in precedenza, per minacciare di sconvolgere questa routine. Con una parola o uno sguardo.

Il diavolo di Indika è un (abile e curioso) narratore, ma la componente visiva del gioco non può essere messa in secondo piano. Essa è talvolta volutamente uncanny, con il suo iperrealismo a tratti grottesco che si alterna a minigames in 16-bit, a esplosioni di monete pixellose e a vari altri bizzarri e grotteschi artifici visivi (come l’omino che esce dalla bocca della suora, senza alcun preavviso).

L'uomo nella bocca della suora

Ricordando il vecchio adagio secondo cui “un’immagine vale mille parole”, tutti questi elementi di scombussolamento visivo sono di grande aiuto, nell’andare a discostare il velo che copre la verità videoludica, con un processo indubbiamente diabolico. Nel Corpum Thomisticum si legge non a caso che l’occhio è il “portinaio” del diavolo. E in effetti quest’ultimo, nella letteratura, è spesso accostato a occhiali, monocoli e altri dispositivi legati alla vista (Salvatore Silvano Nigro, Il portinaio del diavolo, Bompiani 2023).

Vorrei chiudere ricordando un ultimo velo, quello che appare nel titolo di un’opera di Pierre Hadot: Il velo di Iside (Le voile d’Isis). In questo testo si parla della Natura “velata” a cui è possibile approcciarsi in due modi. Il primo è quello prometeico, in cui si tenta di “strappare via” questo velo. Il secondo è quello orfico, in cui si cerca di “svelare” la natura con un approccio meno diretto, sfruttando l’arte e la poesia.

Indika è il disvelamento orfico del videogioco. O perlomeno un suo tentativo.

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