Carceri e manicomi sono esempi emblematici di dispositivi di controllo. Lo sono nella realtà e lo sono anche nei videogiochi, in cui vengono impiegati come spazi contenitivi. Ma il controllo e l’ordine implicano sempre anche la loro sovversione, talvolta con strumenti estrapolati dallo stesso contesto di prigionia.

L’articolo osserva differenti forme di sovvertimento evasivo, tra le esperienze dell’Art Brut e il medium videoludico.

Ho scritto questo contributo insieme all’artista visuale e tessile Anna Bassi.

Prigionie videoludiche

Come scriveva Mauro Salvador in un suo articolo, «Il rapporto che intercorre fra il medium videoludico e il luogo carcere è molto stretto e profondo» (2011, p. 41). Salvador cita, in particolare, tre macrocategorie di carceri videoludici:

  • «La coincidenza tra carcere e mondo di gioco. Si tratta di quei casi in cui l’intero videogioco è ambientato in un carcere da cui bisogna fuggire (o, più raramente, in cui infiltrarsi). Un esempio è Batman: Arkham Asylum, in cui l’eroe si trova intrappolato nel penitenziario psichiatrico di Arkham.
  • Il carcere come sostituzione del game over, quando si viene per esempio catturati dai nemici e si è costretti a fuggire dalla cella in cui si viene collocati. È quanto avviene in alcuni episodi della serie The Legend of Zelda, come all’inizio di The Legend of Zelda: The Wind Waker (2002), quando ci si trova disarmati (e, tutte le volte in cui Link è identificato dai nemici, viene rispedito nella cella da cui è evaso).
  • Il carcere come passaggio obbligato nella progressione del gioco. In questo caso lo sviluppo narrativo della vicenda conduce necessariamente il personaggio, in un certo momento, a trovarsi in prigione. Un esempio fra i tanti è Fable II (2008), in cui il protagonista, col progredire dell’avventura, viene catturato e torturato» (Salvador 2011, pp. 42-43).

Nella maggior parte dei casi lo spazio carcerario non viene problematizzato. Il suo inserimento è semplicemente funzionale alle necessità ludico-narrative, quando torna utile avere a disposizione uno spazio chiuso e sorvegliato. In tal senso, il carcere offre una rappresentazione spaziale immediatamente riconducibile a questi elementi.

Gli spazi videoludici, per come sono strutturati, sono sempre chiusi, finiti e delimitati (Fassone 2017). In generale, però, nella loro costruzione si va a suggerire un’idea di apertura. Le persone che giocano devono essere portate a credere che il mondo narrativo in cui si muovono sia molto più vasto ed esteso di quel che possono effettivamente vedere e percorrere. Talvolta, però, può essere utile far risaltare la sensazione opposta, di claustrofobica chiusura. E in casi del genere il carcere può offrire un modello rappresentativo che già richiama, senza bisogno di altri elementi, a quell’idea. Simili strutture sono infatti fondate su alcuni elementi di base, tra cui la sorveglianza, il controllo e il recinto.

Sui primi si può citare, come esempio noto, «il Panopticon di Bentham, il carcere costruito in modo che i prigionieri sanno di essere costantemente osservati senza poter mai vedere il loro osservatore, esempio chiave di dispositivo disciplinare che riconduce i soggetti agli effetti di un potere “automatizzato” e anonimo attraverso procedure diffuse di sorveglianza» (Eugeni, 2017, p. 19).

L’equiparazione con il recinto, che porta con sé la più ampia idea di confine spaziale ma ancor più simbolico, emerge invece da queste parole di Antonella Barbato:

«Nel caso del carcere, ad esempio, l’archetipo del recinto trova concretezza nel muro di cinta: recinzione dispotica e segregante del corpo e l’anima, dal carattere unico, in quanto capace di proteggere sia dalle forze centrifughe che da quelle centripete. Esso è, di conseguenza, evento architettonico che impedisce il contatto con la città e fissa coppie oppositive come dentro-fuori, liberi-reclusi, colpevoli-innocenti, rendendosi parallelamente superficie scrivibile, leggibile e interpretabile, dal significato anche politico» (2020, p. 42).

Dato che, culturalmente, i carcerati vengono espulsi ed esclusi dalla vita civile e sociale, anche fisicamente i penitenziari sono collocati all’esterno del perimetro della città, in modo tale da effettuare una separazione tra chi è meritevole di vivere all’interno della società civile e di chi invece ne ha infranto le regole.

Sulla falsariga del carcere troviamo il manicomio. Anche in questo caso siamo in presenza di un’istituzione che controlla la devianza dalla norma, separando e talvolta punendo, senza alcuna rieducazione effettiva, le trasgressioni all’ordine prestabilito. Come sosteneva Franco Basaglia, le istituzioni (scuole, carceri, manicomi, fabbriche, ecc.) si basano su una disparità di potere tale per cui ci sia un controllo totale da parte di chi lo detiene nei confronti di chi lo subisce (Basaglia 2017). Per tale motivo gli spazi sono pensati non per l’effettivo benessere di chi li abita, ma per agevolare i controllori nel sorvegliarli e nel separarli dal resto della società.

Similmente, anche nei videogiochi si è assistito a diverse equiparazioni fra il penitenziario e il manicomio, in termini di funzionalità e rappresentazioni, fin dagli albori del medium. Già all’inizio degli anni ’80 emergevano prodotti videoludici come The Institute (1981), in cui si gioca nei panni di un paziente ricoverato in un bizzarro e inquietante ospedale psichiatrico.

La stessa “follia” è stata per lungo tempo principalmente presentata sotto due punti di vista: o come caratteristica di nemici pericolosi o come parametro. In questo secondo caso, essa ha svolto in vari videogiochi una funzione analoga ai punti vita o al mana, una risorsa da tenere sotto controllo per evitarne l’esaurimento. Un esempio molto famoso in tal senso è Eternal Darkness: Sanity’s Requiem (2002), in cui la presenza di mostruosità innominabili andava a danneggiare la sanità mentale (visivamente rappresentata da un indicatore a schermo) dei personaggi, provocando visioni allucinatorie. Una caratteristica peculiare del gioco era il coinvolgimento dell’utente nel processo, in quanto alcune di queste allucinazioni avevano un carattere extradiegetico, esterno al mondo di Eternal Darkness (cancellazione dei salvataggi, spegnimento dell’audio del televisore, ecc.). Al suo fianco si possono ricordare diversi altri videogiochi come Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (2005) o Amnesia: The Dark Descent (2010).

Nonostante questa tendenza generale, sono presenti sul mercato dei videogiochi con un approccio radicalmente differente. Uno degli esempi più noti è The Town of Light (2016), interamente ambientato nell’ex manicomio di Volterra. Il videogioco del team italiano LKA ricostruisce degli eventi reali, mostrando un crudo spaccato di alcune pratiche che, al giorno d’oggi, sarebbero percepite come autentiche forme di tortura, ma che in passato erano considerate delle “normali” pratiche mediche per il trattamento dei pazienti. The Town of Light è ambientato nel presente, nel manicomio abbandonato da decenni, ma l’esplorazione di quel luogo rievoca costantemente gli orrori del passato, che a distanza di anni ancora infestano l’ambiente. La ricostruzione è frutto di un lungo lavoro in cui il team ha collaborato con il comune di Volterra e con diverse realtà istituzionali per realizzare un videogioco che fosse il più possibile vicino alla realtà storica di quel luogo (Dalcò 2020).

L'ex manicomio di Volterra
Comparazione tra l’effettivo ingresso dell’ex manicomio di Volterra e la sua versione ricreata all’interno di The Town of Light.

La contrapposizione con alcuni dei videogiochi precedentemente citati emerge anche nel rapporto con la luce e l’oscurità, come impiego ludico e come metafora. A proposito di The Town of Light si riportano le parole dell’environmental artist Conticelli: «”The whole game uses light as a metaphor,” Conticelli elaborates. “You can hide in the dark, but you can’t hide in the light, you can’t escape the light» (in Donnelly, 2020, p. 51). E infatti, seguendo questa contrapposizione che cita, in diversi videogiochi horror l’oscurità è funzionale al nascondimento, ma è anche fonte di paura (e quindi di abbassamento della sanità mentale), come nel citato caso di Amnesia.

Creatori di sovversioni

Attraverso The Town of Light possiamo introdurre il tema della sovversione simbolica rispetto all’ordine costituito. Infatti, presso il manicomio di Volterra è tuttora presente, seppur estremamente deteriorato, il graffito realizzato dal suo internato più celebre, Oreste Fernando Nannetti. L’autore, che si firmava “Nanof o “N.O.F. 4”, realizzò un enorme “libro di pietra” sul muro di un cortile dell’istituto in cui era ricoverato. Per realizzare quest’opera, lunga 180 metri e alta due, «incise in un decennio con la fibbia del panciotto migliaia di scritte, immagini, numeri che raccontano di invasioni, metalli, onde magnetiche…» (Mina 2011, p. 177).

Segmento dell'opera di Nannetti
Oreste Fernando Nannetti, parete incisa, ospedale psichiatrico di Volterra, 1980 circa.

Visivamente, il risultato complessivo è una personalissima forma di scrittura che ricorda i caratteri etruschi. Nannetti si riferiva a sé stesso come ad un “Astronautico Ingegnere minerario del sistema mentale spazio temporale” che trascriveva quotidianamente, durante l’ora d’aria, le sue memorie affidandole alla stessa struttura che lo imprigionava. L’elemento di ribellione e riscatto diventa duplice, non solo in quanto l’autore marchiava con i suoi personalissimi segni il luogo che lo privava della sua identità, ma anche perché utilizzava la fibbia dell’uniforme come strumento incisorio. Anche un dettaglio del vestiario che lo rendeva un numero tra tanti altri poteva diventare veicolo di una silente ma profonda rivendicazione personale.

L’operato di Nannetti non è un caso isolato: esiste una corrente artistica denominata Art Brut oppure Outsider Art che accorpa opere realizzate prevalentemente in contesti manicomiali da persone prive di qualunque tipo di istruzione artistica pregressa. In diversi casi gli autori si avvalevano di media artistici recuperati in modo “clandestino” nella stessa struttura dove soggiornavano. Si può riportare la definizione presente in uno dei cataloghi della collezione permanente di Losanna che ospita tali opere: «In 1945, Jean Dubuffet decided upon the term “Art Brut” to designate a creative output by people who are self-taught, who work outside of any institutional framework, beyond all rules and all artistic considerations. For the most part, these are solitary people, persons living on the fringes of society or committed to psychiatric hospitals» (Lombardi 2012, p. 9).

Come altro caso di ribellione simbolica alla coercizione possiamo ricordare Marguerite Sirvins, autrice di un abito da sposa ricavato dalla lenta e progressiva operazione di sfilacciamento delle lenzuola manicomiali della struttura di Saint-Alban in Francia.

L'abito da sposa di Marguarite Sirvins
Marguarite Sirvins, abito da sposa realizzato a mano, tessitura ad ago, 1944-1955, Collection de l’Art Brut, Lausanne.

Marguerite all’età di 41 anni venne internata con la diagnosi di schizofrenia e rimase fino alla fine dei suoi giorni nella struttura manicomiale. Impossibilitata a sposarsi e a diventare madre, l’artista sublimò il suo desiderio realizzando un abito nuziale utilizzando fibre recuperate dalle lenzuola che venivano cucite e tessute tra di loro: «Using only sewing needles, she produced alternately tightly woven parts and more loosely embroidered sections, pulling her needle through in an astonishingly rapid and casual manner» (Lombardi 2011, p. 116).

Tale fibra tessile, fornita dal manicomio stesso e impregnata dai dolori di quel luogo carico di sofferenza, diventava medium attraverso cui l’artista esprimeva un suo irrealizzabile desiderio d’amore e libertà.

Anche Agnes Richter, una sarta ricoverata nell’istituto di Hubertusburg nel 1893, rivendicò la sua identità ricamando frasi sulla giubba dell’uniforme a guisa di diario personale. «In a situation which meant the deprivation of rights and the loss of all possessions, Richter gave, with a usually only decorative, subordinated technology of embroidery, material expression to the most intimate, her own recollection and thus her own psychical hold» (Röske 2014, p. 228).

La giacca di Agnes Richter
Agnes Richter, giacca ricamata a mano con testo autobiografico, 1895, Prinzhorn Collection.

Fibbia, lenzuola, giubba: biancheria e vestiario che assumono in questi contesti un ruolo discreto ma potente nel rivendicare la propria identità in un luogo altamente spersonalizzante.

Joker: un personaggio liminale

Anche uscendo dal perimetro dell’Art Brut, in contesti mediali molto differenti, il legame tra il vestiario e il binomio libertà/prigionia presenta diversi elementi di interesse che meritano di essere sottolineati. Questi rapporti sono in particolar modo significativamente osservabili nel Joker del videogioco Batman: Arkham Asylum, una delle innumerevoli declinazioni di questo personaggio fumettistico. Se, in generale, l’aspetto del Joker è decisamente parlante, nello specifico caso di questo videogioco assume una valenza ulteriore, legata all’ambientazione in cui si svolgono le vicende (il penitenziario psichiatrico di Arkham, come accennato in precedenza).

Batman: Arkham Asylum è un videogioco in cui si controlla Batman e in cui l’eroe è indicato fin dal titolo, ma – come è stato osservato (Bezio 2015) – sembrerebbe molto più un videogioco incentrato sul Joker. Il clown prende il controllo del manicomio, ribalta i rapporti di potere ed è una presenza costante nell’avventura: «Within Arkham Asylum’s ludic walls, it is the Joker — not the player-character — who is in control, a situation that is immediately apparent in Arkham Asylum» (Bezio 2015, p. 134).

Il Joker, nelle sue varie incarnazioni fumettistiche, cinematografiche e videoludiche, ha spesso un forte legame con il tipico ribaltamento carnevalesco, in cui l’ordine viene capovolto e sovvertito. Il film Joker (2019) ha per esempio molti tratti del Carnevale descritto da Mikhail Bakhtin (1979), in una esplicita lotta per la sovversione dell’autorità (Javanian e Rahmani 2021). Anche il Joker di Batman: Arkham Asylum segue questa sovversione che però, alla fine, si conclude dopo un breve periodo, quando Batman lo sconfigge e l’ordine viene ripristinato.

Secondo Bernardi una delle fasi dei riti di passaggio è «quella liminare, caratterizzata dai riti di inversione, quando il momento di passaggio, di margine, da un tempo all’altro, costituisce il momento di fusione massima del gruppo. […] Segue la fase post-liminare, infine, che sancisce il ritorno all’ordine. In essa appaiono i tutori sociali (giudici, preti, guardie, autorità ecc.) che processano il Carnevale e lo condannano a morte» (1983 pp. 277-278. Corsivi dell’autore).

Nel caso di Batman: Arkham Asylum il cronotopo del Carnevale coincide con il videogioco stesso, delimitato a livello spaziale (il carcere-manicomio) e temporale. L’avventura copre l’intera durata di questo rovesciamento, tutto il resto rimane al di fuori di essa.

L’elemento sovversivamente atipico del Joker, così come la complessità del suo personaggio, passano anche attraverso un’attenta costruzione del suo vestiario. L’occhio è immediatamente catturato dal suo aderente completo gessato, dal taglio elegante ma dai colori fortemente contrastanti. Il completo viola complementare alla camicia giallo/arancio, il papillon verde della stessa tinta dei capelli e l’inquietante sorriso dipinto sul volto enfatizzano l’aspetto clownesco del suo personaggio. Anche le righe del completo, per quanto siano delicate e sottili, si riallacciano alla tradizione che associa gli indumenti rigati a personaggi liminali della società quali carcerati (la cui uniforme è spesso rigata) oppure giullari in tempi più antichi.

I vestiti del Joker
Batman: Arkham Asylum, il Joker e il suo abbigliamento.

Il Joker è allora una figura di sintesi e un ponte tra il mondo rituale carnevalesco del passato, in cui giullari e buffoni diventavano per un giorno signori e padroni, e l’ambiente ben più recente dell’istituto carcerario, che spersonalizza i suoi ospiti anche attraverso la standardizzazione degli abiti. Il Joker è il giullare dai colori sgargianti che ribalta per un giorno le regole ordinarie dell’istituto, imponendo il proprio regno capovolto. 

Vale comunque la pena sottolineare una volta di più anche quelle che sono le differenze rispetto ad altre forme di sovversione delle logiche carcerarie. Questo videogioco è molto lontano da The Town of Light e dalle pacifiche e silenti operazioni degli esponenti dell’Art Brut. Qui, in Batman: Arkham Asylum, i prigionieri del carcere sono pericolosissimi criminali, spesso con tratti inumani. Lo stesso Joker, quando viene affrontato nel finale, si trasforma in un energumeno mostruoso, tramite una sostanza nota come Titan.

Per trovare, nei videogiochi, altre esplicite problematizzazioni dello spazio carcerario/manicomiale bisogna guardare altrove, per esempio al breve A Prison Strike (2018) di Paolo Pedercini (La Molleindustria). Anche il Joker, però, è un forte simbolo di deviazione dalla norma, di capovolgimento carnevalesco del potere. Forse è anche per questo che ha un così grande successo, e il suo abbigliamento è così iconico.

Bibliografia

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