Premessa: una polemica e un appello all’origine dell’articolo
Ha senso seguire una certa polemica solo se e quando è possibile utilizzarle come spunto di partenza per strutturare una riflessione più ampia, traghettando così l’attenzione del momento – spesso figlia di facili indignazioni – su questioni un po’ più rilevanti. Come può essere quella sui generi videoludici.
La polemica in questione, stavolta, nasce dalla recensione di Metroid Dread su «Everyeye», e in particolare dalla seguente frase di Marco Mottura: «L’esplorazione è sicuramente figlia del modello Hollow Knight: non aspettatevi di essere guidati (non soltanto per mano, ma neppure a grandi linee…) nel vostro peregrinare per i sotterranei di ZDR, perché in qualche caso vi capiterà di dover vagare per diversi minuti senza una meta ben precisa, alla ricerca del giusto sbocco in grado di condurvi alla prossima abilità da sbloccare o a un determinato snodo della comunque marginale trama» (Mottura 2021).
La frase ha suscitato diverse polemiche e attacchi sui social, in cui l’autore della recensione è stato accusato di essere, in sostanza, un ignorante che non conosce la storia dei videogiochi. Di per sé non ci sarebbe molto da dire, è ben comprensibile quanto Mottura fosse intenzionato a dire, così come le probabili ragioni di questo richiamo che ha deciso di inserire. Un rimando a Hollow Knight che è forse figlio, questo sì, di una pratica discorsiva talvolta un po’ troppo abusata nelle recensioni e negli articoli sui videogiochi, e di questo ne ho parlato in un rapido video. Ma il discorso che faccio lì, sull’eccesso di parallelismi e similitudini come scappatoia discorsiva, non lo applicherei a questa recensione.
Se, tuttavia, torno sulla questione è perché raccolgo un appello che è stato lanciato sui social da Damaso Scibetta di «Frequenza critica» (con cui, di quando in quando, collaboro).
Nel suo appello Damaso ha invitato diverse persone che scrivono di videogiochi a realizzare dei contributi sui “metroidvania”, sulla loro evoluzione e sui loro rapporti, per aprire un dialogo costruttivo a partire da uno spiacevole caso di dibattito sui social.
Non mi interessano l’associazionismo a tutti i costi e le difese d’ufficio, ma ho risposto volentieri – con questo contributo – al suo appello perché, come ho detto in precedenza, ritengo sia bello e utile provare a innalzare un po’ il discorso, allontanandosi dalla (spesso molto sterile) polemica del giorno per affrontare discorsi più ampi.
E tutto sommato mi piace immaginare che nei prossimi giorni possano saltar fuori un po’ di contributi sulla storia dei cosiddetti “metroidvania”, sulle possibili fonti a cui lo stesso Metroid Dread potrebbe aver attinto e tante altre occasioni.
Il tutto, spero, nell’ottica di un bel dialogo costruttivo tra le parti. Non so se sarà e potrà essere una reale occasione di confronto collettivo (in realtà ne dubito, ma qui emerge sempre un po’ il mio cuore postmoderno arido e disilluso) o se alla fine si tratterà solo di vedere un paio di articoletti sul tema. Tuttavia, sarà quel che sarà, io intanto ho deciso di fare un primo passo.
Non essendo io un giornalista, ma un accademico, e trovandomi idealmente ad ‘aprire le danze’ di questa potenziale iniziativa, ho deciso di evitare di parlare dell’evoluzione dei “metroidvania” e cose del genere. Se l’appello di Damaso Scibetta avrà un effettivo seguito, di contributi in merito ne arriveranno parecchi.
Quel che ho preferito fare, allora, è fornire una sorta di piccola “cassetta degli attrezzi” sulla nozione stessa di genere, applicata ai videogiochi e non solo, per coloro che si cimenteranno nell’impresa. Non è un lavoro teorico particolarmente elaborato, per cui mi scuseranno coloro che si occupano della questione da anni; quel che presento qui di seguito è solo una piccola introduzione all’argomento e magari – chissà – l’apertura di una effettiva raccolta di contributi in dialogo tra loro su questo argomento.
L’articolo stesso, comunque, dovrebbe anche fornire nel finale alcuni spunti ulteriori anche per lo specifico discorso su Metroid Dread.

I generi videoludici
Vorrei dire, in primo luogo, che affrontare la questione partendo da un articolo giornalistico è una condizione “naturale”. I generi videoludici sono infatti da sempre legati al giornalismo di settore, perché è proprio attraverso le pratiche discorsive giornalistiche che – soprattutto in passato – alcune etichette dei generi sono andate affermandosi: uno o più giornalisti iniziano a utilizzare una certa parola per definire un gruppo di prodotti che hanno un qualcosa in comune, quella parola si diffonde ed entra nell’uso. Anche in altri casi, poi, il ruolo dei giornalisti è comunque presente: ove le definizioni nascono dal basso, infatti, esse cominciano poi ad acquisire una certa legittimità nel momento in cui vengono recuperate dal giornalismo di settore.
Il procedimento è in molti casi piuttosto standardizzato. Il primo passaggio è sempre l’uscita di un videogioco che fa scuola, per cui va a produrre un certo numero di “cloni”. In questo caso con il termine “clone” – è bene specificarlo – non ci si riferisce a un clone in senso stretto, per come intendiamo comunemente il termine nel linguaggio quotidiano. Non si parla insomma di quelle copie 1:1 che ogni tanto saltavano fuori, soprattutto in passato. Si intende il termine nel modo in cui lo usa Arsenault (2009), andando a definire dei prodotti che seguono un sentiero tracciato da un precedente prodotto di successo.
In tal senso – tanto per fare un esempio – videogiochi come Hexen, Quake e dintorni sono dei “cloni di Doom”, e in effetti capitava che venissero definiti come tali, prima che venisse a strutturarsi l’etichetta di First Person Shooter. Una volta emersa l’etichetta, poi, questa va a operare anche retroattivamente. Per cui non saranno solo i giochi del momento a essere identificati come tali, ma anche quelli usciti in precedenza.
Non che sia una specificità del medium videoludico, anzi, a breve si vedrà quanto la faccenda affondi le sue radici indietro nel tempo. Prima di proiettarsi su altri territori, però, val la pena osservare ulteriormente il panorama discorsivo legato ai videogiochi.
Quello dei generi un problema di vecchia data e mai pienamente risolto, a proposito del quale coloro che, nel corso degli anni, si sono occupati di analisi ad ampio spettro sui videogiochi (come Kerr 2006, Paggiarin 2009, Salvador 2013, Mosna 2018, ma anche il mio Cajelli e Toniolo 2018), hanno offerto un sunto sulle preesistenti posizioni, andando eventualmente ad aggiungere ulteriori tassonomie d’uso o ricollegandosi al dibattito sui generi letterari (o cinematografici), per porre un terreno comune relativo ai termini utilizzati.
Inoltre, come aveva sottolineato Rune Klevjer (2006), negli studi sui videogiochi si è assistito a uno scollamento netto fra indagini sui videogiochi in generale e studi su specifici casi, con poca attenzione per la categoria intermedia dei generi. A oltre dieci anni di distanza dal suo intervento il quadro appare ovviamente molto più sfaccettato, ma resta per certo presente la disparità quantitativa fra le parti. Le eccezioni sono poche e parziali, l’unica veramente significativa è quella forse riguardante l’horror videoludico, su cui sono rintracciabili i contributi di Bernard Perron (senza pretesa di esaustività: 2005, 2009 e 2018), Tanya Krzywinska (sempre senza pretesa di esaustività: 2002, 2013 e 2015) e altri.
Forse questa carenza di studi specifici deriva anche da questo fatto: si prova una sorta di ‘imbarazzo’ accademico quando si ha a che fare con il genere videoludico, proprio per la sua estrema volatilità. Il fatto che proprio l’horror sia l’eccezione sembra confermare la regola, essendo l’etichetta che, più di tutte le altre, trova un facile appoggio esterno al medium videoludico, e infatti ci si può appoggiare a precedenti tassonomie (come quella delle forme del gotico) e a contributi come quelli di Carroll (1990) o di Punter (1996), estranei al mondo videoludico, così come non mancano i saggi ‘ponte’ tra i media (Marak 2015, tanto per fare un esempio).
Questo perché – di nuovo – il genere videoludico ha il suo senso in quanto etichetta d’uso per aiutare differenti parlanti a capirsi più velocemente, ma quando si va a fondo della questione emergono sempre incertezze e problemi di ogni sorta. Questo perché, potenzialmente, si potrebbero moltiplicare le etichette, producendo una infinita e incontrollata iperfetazione di generi in cui, alla fin fine, ciascun videogioco sarebbe il solo e unico esponente di un genere. In numerosissime occasioni mi è capitato di leggere o sentire «ma non starai mica paragonando il gioco X al gioco Y?» ed espressioni analoghe. E magari X e Y sono due esponenti dello stesso genere, sono uno il “clone” dell’altro o sono persino due esponenti di una certa saga.
Provo a sviluppare un simile ragionamento, tanto per amor di esemplificazione. Si potrebbe benissimo distinguere i “soulslike di posizione” (Demon’s Souls e i tre Dark Souls) dai “soulslike di movimento” (Bloodborne e Sekiro), basandosi su quanto ci si muova rispetto a quanto si rimane più statici durante un combattimento. Però Bloodborne è palesemente un “soulslike di movimento gotico” mentre Sekiro è un chiaro esempio di “soulslike di movimento giapponese”. Avvicinabile a Nioh? Per carità, non sia mai, Nioh è un palese “soulslike di posizione giapponese”, perché è chiaro che vi muovete molto meno rispetto a Sekiro. E anche i tre Dark Souls… beh, non si vorrà mica metterli tutti nello stesso calderone, no? Il primo è un “soulslike di posizione mitico”, il secondo un “soulslike di posizione atipico” e il terzo un “soulslike di posizione crepuscolare”.
Si potrebbe proseguire molto a lungo, ma dovrebbe essere sufficiente come esempio per rendersi conto di quanto sia non solo folle, ma anche estremamente soggettivo e opinabile, un discorso sullo ‘spacchettamento’ dei generi che venisse portato avanti fino alle sue più estreme e radicali conseguenze.
I generi prima del videogioco
Come accennato in precedenza, comunque, la questione non riguarda solo il mondo videoludico, seppure sia il medium che probabilmente soffre maggiormente di questa cosa, non potendo contare su una tradizione paragonata ad altri media.
Il concetto di genere, infatti, è tutto tranne che recente: si può farlo risalire perlomeno alla trattazione di Aristotele, infatti. Ovviamente poi, nel corso dei secoli, ha subìto un gran numero di evoluzioni e trasformazioni.
Riporto una frase da un testo di Antoine Compagnon dedicato alla critica letteraria: «Il genere, in quanto tassonomia, permette allo studioso di classificare le opere, ma il suo significato teorico non è questo: è quello di funzionare come uno schema di ricezione, una competenza del lettore, confermata e/o contestata da ogni nuovo testo nell’ambito di un processo dinamico. La constatazione dell’affinità tra genere e ricezione invita a correggere la visione convenzionale che si ha del genere, come struttura di cui il testo sarebbe la realizzazione» (2000 p. 170).
Mi piace molto, in particolar modo, lo «schema di ricezione»: quando noi fruiamo un nuovo testo (letterario, nel caso di cui parla Compagnon) lo facciamo già con tutta una serie di aspettative su quanto andremo a leggere. E queste aspettative sono anche determinate dal genere di appartenenza, dall’etichetta che quel testo si porta dietro. Per cui in un giallo ci si aspetta di trovare una serie di indagini, mentre in un rosa dovrà esserci una lunga e travagliata storia d’amore. Ma si potrebbe benissimo prendere un romanzo in cui sono presenti entrambi questi elementi e proporlo in modi differenti a differenti target. Potenzialmente verrebbe accolto come “giallo” e come “rosa” a seconda dei casi senza alcun problema.
Viceversa, si potrebbe anche portare il pubblico a stupirsi dell’esito di un romanzo che viene etichettato in un certo modo, ma che va poi a tradire le marche di genere della sua etichetta. È un’operazione che può suscitare molta curiosità oppure generare numerose polemiche, a seconda di come sia gestito il tutto e di quanto radicalmente vengano tradite le “promesse” che il genere fornisce.
Apro una parentesi, perché immagino che qualcuno potrebbe avanzare la seguente obiezione: la letteratura non è fatta solo da romanzi di genere, perché ci sono anche i “classici” e la “letteratura alta”, che esce al di fuori dei recinti di genere. E magari, come corollario della precedente affermazione, potrebbero uscir fuori altre due considerazioni, a seconda della persona. O che i videogiochi devono ancora maturare come medium perché non hanno un corrispettivo della “letteratura alta” o, al contrario, che bisognerebbe volgere l’attenzione sui videogiochi che già esistono come corrispettivi di questa letteratura.
Il fatto è che anche la “letteratura alta”, quella che esce al di fuori dei canoni di genere (e, che secondo alcuni, è l’unica letteratura davvero degna di questo nome) ha a sua volta un genere: quello della literary fiction. Come tutte le etichette, anch’essa ha senso solo nel momento in cui è utile per aiutare differenti parlanti a capirsi, per cui se la definizione in sé non vi piace mettetene pure un’altra, non è un problema, l’importante è capirsi.
Cito, a tal proposito, un passo piuttosto lungo – ma per me decisamente utile come chiarificazione immediata – del vecchio blog Gamberi Fantasy: «Literary fiction è una locuzione inglese con la quale si designa un tipo di narrativa dove la forma viene considerata importante in sé, oltre che veicolo per il contenuto. Per usare termini più terra terra, la literary fiction è quel tipo di narrativa che suscita nel lettore reazioni del tipo: “Ma com’è bravo questo autore! Che prosa raffinata! Quali sublimi metafore!”. In altre parole, il lettore di literary fiction prova piacere nell’atto di leggere in sé, al di là del significato di quel che sta leggendo. Invece nella narrativa di genere, la forma è subordinata al contenuto. In generale lo scopo della narrativa di genere è raccontare storie, dunque il come dev’essere elaborato con tale scopo ben in mente. La forma non può andarsene per i fatti suoi, deve sempre tendere allo scopo. Dal che si deduce che “scrivere bene” ha due significati diversi, a seconda se ci stiamo riferendo alla literary fiction o alla narrativa di genere. “Scrivere bene” in literary fiction significa offrire al lettore una forma che sia piacevole in sé, “scrivere bene” narrativa di genere significa scrivere trasparente» (Gamberetta 2008).
Già da questa distinzione, nell’ottica del genere come etichetta, è chiarissimo come siano funzionali e sensate le due etichette di “literary fiction” vs “narrativa di genere”. Per cui anche la “letteratura alta” non sfugge alla tassonomizzazione dei generi, nonostante finga di evitarli, anche perché, al di fuori di questa insistenza sulla forma, nelle sue strutture interne saranno comunque rintracciabili le tracce di uno o più generi. Se i Promessi sposi venissero presentati come un romanzo rosa immagino ci sarebbe più di uno svenimento, tra i docenti di lettere, ma per altre persone sarebbe assolutamente plausibile (anzi, magari direbbero che è un “rosa storico”, o qualche altra combinazione di etichette, per tornare al discorso di prima).
Spostandosi al cinema, poi, il discorso non cambia molto. Per avviare il discorso cito, in questo caso, un passo del noto testo di Rick Altman: «è opinione diffusa presso i critici che i generi cinematografici siano semplicemente mutuati da generi già esistenti in altri mezzi di espressione» (2014, p. 49). Nel caso del cinema, insomma, la faccenda sembrerebbe in apparenza un pochino più semplice: esistono già dei media antecedenti (come la nostra già citata letteratura) in cui i generi si sono sviluppati e diffusi, per cui il cinema ha questo appoggio sul passato, si possono considerare i film come applicazioni o trasformazioni di generi preesistenti.
Eppure, anche in questo caso, le cose non sono così semplici. Ci sarebbero, in primo luogo, dei generi specificamente cinematografici, che non hanno un corrispettivo letterario, ma quando si va poi a osservarli da vicino nella loro storia, si scopre che essi – all’inizio – non erano nemmeno percepiti o promossi come generi a sé stanti. Cito sempre da Altman, quando parla dei musical: «I primi film sonori imperniati attorno a figure di intrattenitori e alla loro musica non vennero in realtà, ai tempi, identificati come dei musical. […] Nei primi anni del sonoro a Hollywood ci accorgiamo dunque che il termine ‘musical’ viene sempre utilizzato nell’accezione di aggettivo, abbinato a sostantivi dal significato disparato quali commedia, romance, melodramma, entertainment, attrazione, dialogo e varietà» (2014, p. 51).
Sembrerebbe proprio un esempio molto simile a quello fatto in precedenza con i “cloni di Doom”, e non è il solo a cui poter attingere. Anche su un altro genere tipicamente cinematografico, il western, le parole di Altman sono di grande interesse. Ne riporto alcuni estratti: «Di tutte le nozioni pervenuteci sul cinema, poche sono così ampiamente condivise quanto la certezza che La grande rapina del treno di Edwin S. Porter, uscito nel 1903 […] fu il primo western della storia del cinema [eppure] La grande rapina del treno non ebbe la maggiore risonanza nell’ambito del western. Il suo successo non incentivò altri western bensì altri crime film. […] Negli anni successivi alla sua uscita, l’identificazione de La grande rapina del treno con il sottogenere railroad, appartenente al genere del viaggio, fu fortemente avvalorata dallo sviluppo di performance teatrali iperrealistiche imperniate sull’ambientazione ferroviaria» (2014, pp. 55-57).
Le questioni da affrontare, qui, sono più d’una. Esistevano dei racconti “western” prima dell’avvento del cinema, ma erano spesso molto diversi da quello che sarebbe poi divenuto il western cinematografico e, soprattutto, è molto difficile considerarli come delle fonti di ispirazione diretta. Per cui se, nel caso per esempio dell’horror, si potesse anche ipotizzare una filiazione diretta, nel caso del “western” questo non sarebbe possibile. Inoltre i film che oggi sono etichettati come “i primi western” al tempo non erano affatto definiti e percepiti come tali. Si puntava molto, per esempio, sul racconto di viaggio. Che, se si volesse andare a ragionare su quella che è l’attuale definizione condivisa di “western”, in molti casi non ricopre nemmeno un ruolo così fondamentale nell’economia della storia.
I generi videoludici si trascinano dietro tutto ciò, con una ulteriore problematica. Nel caso dei videogiochi, infatti, si assiste a una sovrapposizione tra quelli che sono i generi tradizionali, legati in larga misura alla struttura narrativa, e quelli che sono i generi videoludici, legati in larga misura al gameplay. Per cui è possibile avere un “FPS western”, un “FPS horror” e magari anche un “FPS rosa” (Gal*Gun potrebbe esserlo) e molto altro ancora.
A fronte di tutto ciò, dunque, fossilizzarsi troppo su certe etichette di genere non è molto produttivo, perché significa solo muoversi in un territorio che è ottimale fin quando si rimane in quella che deve essere una comunicazione immediata (come quella giornalistica, che ha bisogno di queste etichette), ma che si rivela un pantano o un campo minato nel momento in cui si prova ad andare in profondità.
Cosa cambia nel tempo
I generi cambiano nel tempo, non sono entità immutabili, granitiche e monolitiche. Possono nascerne di nuovi e possono anche morirne di vecchi. È un esempio che faccio spesso, ma vorrei ricordare che prima che arrivasse il concetto di “platform” capitava di trovarsi davanti all’etichetta dei “climbing games”, un insieme di videogiochi in cui ci si arrampicava e che avevano un andamento più verticale che orizzontale. Videogiochi che oggi sarebbero probabilmente inseriti sotto l’etichetta di “platform” nella maggior parte dei casi.
Tendenzialmente sarei anche per evitare le prospettive teleologiche e finalistiche. Oggi con “platform” intendiamo un qualcosa in cui si salta parecchio, per esempio, ma se Jumpman (cioè Mario) e altri personaggi iconici non ne avessero fatto un tratto distintivo, magari si sarebbe sviluppato un modo differente con cui spostarsi di piattaforma in piattaforma, e oggi avremmo ancora dei “climbing games”, o una qualche altra definizione un po’ più ‘evoluta’ dello stesso concetto.
Ma, soprattutto, bisogna ricordare quel che è già stato evidenziato più sopra: il genere è legato alle aspettative del fruitore in un dato momento. E il fatto che queste aspettative siano temporalmente collocate significa anche che andranno a evolversi con il tempo, man mano che i prodotti inseriti sotto una determinata etichetta vanno a modificarla. Si può parlare di “fantasy” prima di Tolkien, ma è un qualcosa di molto diverso rispetto alle aspettative sul fantasy che da allora in avanti un’ampia fetta di pubblico ha in mente.
Ci sono casi come Il Signore degli Anelli che hanno un impatto radicale, ma ci sono anche tanti piccoli cambiamenti che possono andare a sedimentarsi. E, da quest’ultimo punto di vista, è anche sensato dire che le aspettative sul “genere metroidvania” dopo prodotti come Hollow Knight siano inevitabilmente modificate, rispetto ai tempi dei vecchi Metroid in 2D. Pertanto, nonostante il nome stesso di questo genere o sottogenere, il quadro attuale delle aspettative che genera nei giocatori è anche figlio di videogiochi che, nel nome, non contengono né la parola “Metroid” né la parola “Castlevania”.
Considerandolo in quest’ottica, Metroid Dread può anche essere parzialmente figlio di Hollow Knight, nel suo posizionamento all’interno di una determinata etichetta di genere. Non lo sarà forse in un’ottica di filiazione diretta (su questo, per chi interessato, rimando al mio video che ho citato in precedenza), ma chi ne fa una battaglia di fedeltà al genere si trova un po’ fuori fuoco.
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