Garfield Kart – Furious Racing: una fenomenologia in pillole

Garfield Kart – Furious Racing è uno dei miei videogiochi preferiti.

Ogni tanto mi capita di dare questa risposta, in giro.

Oppure cito Monster High: Una nuova mostramica a scuola.

In queste risposte c’è una parte di trolling, ma solo una parte. Molto più piccola di quel che forse qualcuno pensa.

Non sono, certo, esperienze paragonabili ad altri videogiochi che ho sempre amato e che cito tra i miei preferiti, come Dark Souls, Mass Effect, Diablo II, vari The Legend of Zelda e altri.

Eppure, con Garfield Kart – Furious Racing mi diverto sempre con grande gusto. E anche con il citato gioco delle Monster High, ma magari di quello parlerò in un’altra occasione.

Volevo pertanto parlarne un po’.

E, già che ci siamo, ricordare che ci si può tranquillamente divertire anche con qualcosa di imperfetto, senza doversene vergognare. Basta avere un po’ di consapevolezza. Anzi, è un buon esercizio di auto riflessione per capire che cosa ci attrae e che cosa è “importante”. Non sempre le due cose vanno di pari passo.

Garfield Kart Furious Racing

Cos’è Garfield Kart

Cominciamo con qualche informazione di carattere generale. Garfield Kart – Furious Racing è il remake (anche se al tempo venne promosso come un seguito) del precedente Garfield Kart, che era stato sviluppato da Artefacts Studio e pubblicato nel 2013. Nel 2019, sempre realizzato dallo stesso team, è uscito Furious Racing. Quest’ultimo aggiunge diversi contenuti, ha una nuova veste grafica, cambia alcune funzioni legate al controllo dei veicoli e modifica gli shortcuts dell’originale, aggiungendo anche un nuovo oggetto necessario per certe scorciatoie (se ne parlerà in seguito). Qui di seguito mi soffermerò su Furious Racing e basta. Segnalo solo che alcuni dei seguenti discorsi valgono anche per l’originale (per esempio il comportamento della community) mentre altri si applicano solo a questo.

Senza grandi sorprese, ci si trova davanti a un videogioco di corse coi kart. Sedici piste divise in quattro coppe. Tre difficoltà (50cc, 100cc e 150cc). Modalità Cronometro e possibilità di scegliere singole corse. Single player e multiplayer. I personaggi selezionabili sono otto: Garfield, Odie, Jon, Nermal, Arlene, Liz, Harry e Squeak. Ciascuno di loro ha dei parametri differenti. È possibile personalizzare il personaggio scegliendo kart, alettone e cappello, con diversi bonus non solo legati alle statistiche del mezzo (velocità massima, accelerazione e controllo) ma anche all’uso degli oggetti. Si può sperimentare la combinazione che si vuole, ma ogni personaggio riceve un bonus da uno specifico set. Per cui, se si vuole ottenere questo non indifferente bonus aggiuntivo, bisogna optare per il kart, l’alettone e il cappello che corrispondono a quello specifico personaggio. Scelta che avviene molto frequentemente.

Fatte queste brevi premesse, vediamo subito cosa c’è di interessante da poter dire su questo videogioco.

Andare TROPPO veloci

Voglio iniziare subito con quello che è per me l’aspetto più divertente e – a suo modo – riconoscibile di Garfield Kart – Furious Racing: la velocità eccessiva e incontrollabile. Andare troppo veloci in questo videogioco può rivelarsi un malus, soprattutto se il proprio personaggio è poco controllabile. Anche i personaggi veloci ma con una discreta manovrabilità soffrono però di questo problema. “Soffrono” e “problema” non sono forse nemmeno i termini giusti, perché tutto ciò genera gare adrenaliniche, momenti comici e sorpassi assurdi. Tuttavia, non è di certo qualcosa che viene in aiuto di chi volesse prendere seriamente il gioco.

Jon e Liz sono due dei personaggi capaci di raggiungere la massima velocità possibile, cosa che genera situazioni perlomeno bizzarre. Se si prende un dosso a velocità troppo elevata ci si trova catapultati fuori dalla pista, a grande distanza dal circuito, a volte sballando anche il punto di respawn e a volte consentendo dei tagli assurdi. Oppure, più prosaicamente, ci si schianta contro un muro alla massima velocità e si continua ad accelerare per un po’, rendendo più lunga la retromarcia. Questo soprattutto perché sia Jon sia Liz uniscono questa altissima velocità a una scarsa manovrabilità.

Il terzo personaggio che può raggiungere la velocità massima, il gatto Harry, è un po’ più controllabile, ma ha anche una bassa accelerazione, per cui raggiunge più difficilmente quei picchi, visto che basta poco per essere colpiti. Molti consigliano invece di giocare con il cane Odie, che è comunque molto veloce (un po’ meno di Harry, Jon e Liz) ma possiede un’altissima accelerazione e una buona manovrabilità (e un cappello con un ottimo bonus). Anche personaggi con una minore velocità massima, come Nermal o Squeak, possono comunque volare come razzi se utilizzano una lasagna o qualche altro boost al momento giusto (o sbagliato, dipende dai punti di vista).

Per sottolineare l’ambivalenza di tutto ciò, metto qui questi due video. Uno con una serie di “fail” bizzarri. L’altro che mostra come sfruttare la massima velocità anche in punti impensati (le ultime shortcuts che mostrano).

E, a proposito di salti e scorciatoie, c’è un oggetto curioso nell’arsenale di Garfield Kart – Furious Racing.

La molla e il puzzle

Gli oggetti utilizzabili in Garfield Kart – Furious Racing sono in generale quel che ci si aspetterebbe di trovare in un videogioco coi kart, sebbene ci siano alcune eccezioni degne di nota. Tra gli oggetti “standard” ci sono le torte (i gusci verde e rosso dei Mario Kart), il profumo (la stella dell’invincibilità), la lasagna (il fungo che offre un boost di velocità), il cuscino (il fulmine) e la gemma maledetta (la bob-omba). Il famosissimo e temuto guscio blu di Mario Kart ha anch’esso un corrispettivo, leggermente diverso: un trio di dischi volanti che vola a bloccare il passaggio di chi sta in prima posizione. La principale differenza è che, se si centra il raggio verde degli alieni evitando i due rossi, non si viene rapiti (e rallentati).

La bacchetta magica è un po’ più particolare: se centra un avversario, consente di scambiarsi di posto con lui. Non è facile farla andare a segno, ma quando ci si riesce l’effetto è buono. L’oggetto più interessante è però un altro. La molla. È possibile piazzarla dietro di sé come trappola, similmente alle classiche banane di Mario Kart, oppure utilizzarla su di sé per fare un salto in alto. Non fornisce un boost di velocità e, pur venendo presentata come una mossa difensiva contro altri oggetti, è difficile trovare il tempismo esatto.

È invece interessante scoprire che certe shortcuts sono accessibili solo con la molla. Di per sé non è certo una novità. Anche in Mario Kart serve un fungo per alcune scorciatoie e questo è tornato poi anche in altri videogiochi del genere. In Garfield Kart – Furious Racing rimangono sempre scorciatoie da prendere con una lasagna (o un altro boost). Se ne trova una già nella prima pista, in cui è possibile tagliare un pezzo di strada lanciandosi in un vicolo laterale pieno di fanghiglia. Senza un boost, ci si ritrova impantanati.

Sempre il primo livello contiene anche un’altra scorciatoia, che risulta invece inaccessibile nonostante tutte le lasagne del mondo, perché la stradina è sbarrata da una serie di transenne. Serve una molla per poterle superare. Un oggetto da usare con cautela perché, considerando l’alta velocità di cui si è parlato, non è certo impossibile andare a schiantarsi da qualche parte.

L’utilizzo competitivo della molla è aleatorio. Bisogna trovarne una al momento giusto, altrimenti può non valere la pena conservarla a lungo, evitando di utilizzare altri oggetti nel mentre. Quando si gioca da soli c’è però un incentivo che spinge a sperimentare ogni shortcut possibile e a scoprire i segreti dei tracciati: i pezzi dei puzzle. Ogni circuito ne contiene tre. Alcuni sono quasi impossibili da mancare, altri sono ben nascosti e richiedono diversi tentativi prima di essere trovati e raccolti. Spesso si trovano in punti accessibili solo con una molla.

Purtroppo i puzzle non sbloccano nulla di significativo. Il loro completamento permette solo di ottenere delle generiche immagini di Garfield. È comunque possibile ottenere (e poi potenziare) dei cappelli e degli alettoni, man mano che vengono completate le diverse coppe.

Non è un gioco di Garfield

So che può sembrare strano, ma Garfield Kart – Furious Racing è solo incidentalmente un videogioco di Garfield. Ora, è bene partire da un assunto di fondo: i videogiochi di kart hanno già alla base una certa genericità. Tanti livelli presenti nei vari Mario Kart – alla base – non sono così legati a Super Mario. Viene tuttavia messa in atto una strategia di ridefinizione e personalizzazione. Con un po’ di funghi in giro, dei Toad che fanno il tifo a bordo pista, una statua di un Goomba e qualche altra amenità, ecco che un generico tracciato si lega molto di più al mondo di Super Mario. Per cui, nella serie di Mario Kart, ci sono livelli immediatamente riconoscibili e altri più generici, ma su cui è stato comunque fatto questo lavoro.

Si potrebbe dire che il confronto sia ingiusto. Prendo allora un altro videogioco che ho giocato sempre su Nintendo Switch: Puffi Kart. Conosco poco i “nuovi” Puffi, per cui potrei aver perso qualche riferimento, ma anche così il gioco presenta diverse piste che richiamano subito a quell’immaginario. Soprattutto nella coppa di Gargamella, in cui si gareggia nei dintorni e all’interno della sua casa. Oltre a questo ci sono tutta una serie di più generiche piste ambientate nei boschi, che però sono comunque rese caratteristiche dalla piccolezza dei Puffi. Insomma, sarebbe difficile prendere quei circuiti e inserirli in un altro gioco di corse.

Non si può dire lo stesso di Garfield Kart – Furious Racing. Per cominciare, ben quattro dei sedici tracciati sono legati all’Egitto e al deserto. Idea carina per una pista legata agli antichi egizi, vista la nota sacralità del gatto presso di loro. Tematicamente parlando, quattro piste così sono un po’ troppo e c’è ben poco di Garfield. Anche in altri livelli si assiste a qualche vaghissimo tentativo di legare quell’ambiente a Garfield, ma non si va oltre il nome e/o qualche immagine sparsa in giro. In molti livelli non avviene nemmeno questo. Piste come la montagna innevata, la spiaggia e la magione infestata potrebbero essere tranquillamente prese e inserite in un altro gioco di kart, senza dover modificare praticamente nulla.

Forse è anche per questo che hanno scritto più e più volte che tutto questo sarebbe ispirato al mondo di Garfield, per portare avanti un’operazione di convincimento. Come si legge sulla pagina Steam: «16 diversi circuiti, tutti rappresentativi del mondo di Garfield» e poco sotto «Tante corse pazze in magnifiche ambientazioni ispirate al mondo di Garfield, come il Lago Roccepallide o la Fabbrica Pastacosi».

La community di Garfield Kart

Le recensioni su Steam, i commenti ai video su YouTube, le discussioni presenti in giro… con Garfield Kart – Furious Racing c’è sempre da ridere. Chi lo paragona alla storia di Halo, chi accusa Nintendo di aver clonato il glorioso gioco di Garfield con il suo Mario Kart, chi inventa creepypasta e chi scrive semplicemente “lasang” o cose del genere. C’è da sbizzarrirsi. Ogni tanto salta fuori anche qualche utente che appare sinceramente perplesso. Il gioco non è così bello – dice l’utente perplesso – perché quindi ci sono così tante recensioni positive? In generale gli viene risposto che è indegno di seguire il Vangelo di Garfield. O si ricorre a un caro, vecchio “git gud”.

Su due piedi, verrebbe da dire che ci si trova davanti a un esempio di so bad, it’s good: così brutto da essere bello. E almeno per certe sue meccaniche è effettivamente così. La velocità dei kart di cui si è parlato sopra, in particolar modo, è ciò che finisce alla fine per rendere stimolante e divertente l’esperienza. Un elemento “rotto”, che dà però gusto al gioco.

L’importante è approcciarvisi con la consapevolezza di non trovarsi davanti al miglior racing game di sempre. Consapevolezza direi molto diffusa. Salvo qualche ingenuo passante, tutti riescono a leggere ciò che c’è dietro all’entusiasmo delle bizzarre recensioni presenti su Steam. A quel punto, immersi nel giusto spirito, è possibile godersi appieno l’esperienza di Garfield Kart – Furious Racing, magari finendo per entrare anche a far parte della sua peculiare community di appassionati. Presto o tardi, si scoprirà così quanto è sottile e poroso il confine tra trolling e vero apprezzamento.

Bisogna anche ricordare che il gioco nasce in un terreno fertile. Garfield è diventato un personaggio fortemente memetico e tutto ciò ha toccato anche i videogiochi. Basta vedere il caso di Bad Monday Simulator (ne ho parlato nel mio libro CTRL+V-ideogiochi. Storie di rifacimenti e parodie nel medium videoludico), una operazione fanmade che ricrea lo scontro con Sans di Undertale, mettendo però in campo Nermal e Garfield (o meglio, Sansfield).

Insomma, abbracciate anche voi Garfield Kart – Furious Racing. Non solo per il meme e for the lulz, ma perché potreste effettivamente divertirvi, più di quel che avreste pensato.

Date una possibilità al pacioccoso micione nemico del lunedì.

Let’s Play: qual è stato il primo?

Qual è stato il primo let’s play? Di recente, spulciando tra le cartelle del computer, ho trovato questo articolo, in cui davo una risposta all’interrogativo.

L’articolo riprendeva un pezzettino della mia tesi di dottorato. Non ho mai avuto occasione di pubblicarlo e non ricordo perché.

Comunque sia, ho deciso di condividerlo qui sotto.

Che cos’è un let’s play

Possiamo fornire la seguente definizione per ciò che si intende, attualmente e abitualmente, con questo termine.

Let’s play: una tipologia di video nata come condivisione della propria esperienza di gioco, magari per istruire altri videogiocatori. Il termine è passato poi a indicare, in prevalenza, dei video relativamente brevi in cui uno youtuber realizza una performance videoludica in cui emerge con una certa forza la sua presenza. Il contenuto è spesso ironico e, anche quando non è esplicitamente presente questa componente, risulta un contenuto ‘leggero’, di intrattenimento.

La presenza dell’editing è spesso significativa e può arrivare a modificare notevolmente quanto mostrato. In linea di massima si tende a rimuovere le parti più ripetitive della partita, per soffermarsi sui momenti di maggior interesse, per quanto avviene a schermo o quanto dice lo youtuber. Lo youtuber è tendenzialmente presente sullo schermo, o in un riquadro oppure con il suo profilo isolato tramite green screen. La sua presenza è importante per il valore assunto dalle sue reazioni che in alcuni casi, nei momenti più significativi, sono sottolineate tramite uno zoom sulla sua figura che mette per un momento in secondo piano il videogioco. In alcuni casi il giocatore non è tuttavia visibile, ma è possibile ascoltare la sua voce.

Si può anche considerare un ulteriore termine, spesso usato in modo decisamente simile, nei contesti di cui si parla.

Gameplay: in molti casi è un termine quasi sinonimico rispetto a “Let’s play” e utilizzabile indifferentemente al posto suo. Volendo operare una distinzione il gameplay può essere definito come un video con grosso modo le stesse caratteristiche dei let’s play, ma con un maggior focus sul videogioco provato rispetto allo youtuber. Quest’ultimo può rimanere presente, come voce o presenza a schermo[1], ma i suoi interventi privilegiano la spiegazione del gioco rispetto alla propria personalità. Si tratta comunque di una differenza sottile, legata semplicemente al gradiente con cui possono presentarsi determinati elementi. Senza dimenticare che, il più delle volte, i termini sono intercambiabili.

Un campo in cui potrebbe forse essere sensato proporre una differenziazione effettiva riguarda un gruppo di più o meno brevi video che registrano un determinato aspetto di un videogioco, come la sconfitta di un avversario particolarmente difficile, con la finalità di istruire i fruitori. D’altra parte potrebbero però esser semplicemente definiti degli “how to”, categoria presente in gran parte dei settori presenti su YouTube.

Nascita del let’s play

La storia del let’s play varia a seconda della definizione che si vuole accogliere, variabile, come visto in precedenza, già nella sua stessa natura attuale d’uso. Non si tratta, in primo luogo, di risalire alla prima registrazione documentata di un videogioco, ma a un formato differente, realizzato con un intento precipuo.

Il termine let’s play sembra in primo luogo essere nato all’interno del sito Something Awful, terreno di coltura di numerosi contenuti memetici. La definizione, in particolare, sarebbe nata da un thread relativo al videogioco The Oregon Trail (mecc, 1971), in cui veniva mostrato come giocare attraverso una serie di screenshots (Klepek, 2015). Il thread non è più raggiungibile, ma le tempistiche risultano credibili, anche perché il racconto di una partita tramite screenshots era già andato sviluppandosi almeno a partire dall’anno prima (ivi). Le immagini fisse non sono però un video, per il quale – nella stessa community – bisognerà attendere il 2007 per assistere a un contenuto di questo genere.

E allargando il concetto si potrebbe del resto far risalire il let’s play a molto prima. Anche una testimonianza come quella di Martin Amis (1982) sui coin–op allora, per quanto largamente testuale, potrebbe costituire il racconto ragionato di una esperienza di gioco, volta a istruire altre persone. La sua è infatti una testimonianza pubblica, divulgativa, ma slegata dalla componente audiovisiva. Esistono invece numerose testimonianze di registrazioni decisamente antecedenti al sopra citato 2007 (alcune delle quali citate nei commenti a Klepek, 2015), ma destinate – almeno fino a tempi recenti – a una fruizione privata, legata ai ricordi dell’infanzia, in un circuito costituito al più da amici e parenti.

Genitori, nonni o altri parenti che registrano la partita di un ragazzino, magari all’interno di un più ampio ciclo memoriale di riprese sulla propria famiglia. Alcuni di questi contenuti sono stati poi caricati su YouTubein tempi relativamente brevi su YouTube (come questo). Anche simili casi, tuttavia, potrebbero non costituire un particolare primato a seconda della definizione considerata. Tendono infatti a polarizzarsi in forma troppo netta o sulla registrazione del videogioco o sul bambino che sta giocando, il che non li differenzia da filmati antecedenti se non, al più, per la loro natura amatoriale.

Ancora, spostando altrove la definizione emerge uno spostamento temporale notevole. Il playthrough realizzato tramite video è un fenomeno che può esser fatto risalire alla fine degli anni Novanta (Menotti, 2014). Allo stesso modo sono tracciabili diverse registrazioni relative per esempio a Doom (Lowood, 2008), legate a una specifica nicchia incoraggiata dai creatori stessi del videogioco (Menotti, 2014). E ancora, considerando il Machinima la sua genesi è abitualmente fissata al 1996, con la pubblicazione di Diary of a Camper (Lowood, 2006). Nessuna di queste forme qui citate è tuttavia interamente sovrapponibile a un let’s play.

Un curioso ma tutto sommato condiviso primato

A fronte di una simile incertezza classificatoria risulta certamente comprensibile la posizione di chi indica il primato di Something Awful, e in particolare dell’utente slowbeef (Michael Sawyer), per aver fornito la definizione nel 2005 e offerto il primo video di let’s play nel 2007, legato al videogioco The Immortal (Sandcastle, 1990). È tuttavia possibile risalire ad almeno un altro precedente degno di menzione, che è stato a sua volta indicato da alcuni come “il primo let’s play.

Il caso risulta di maggior interesse perché si collega a una figura particolarmente studiata nel panorama della rete, al punto da generare numerosi video documentari sulla sua vita: Christian Weston Chandler, attualmente Christine Weston Chandler. “Chris Chan”, spesso ha questo appellativo, ha inconsapevolmente anticipato diversi fenomeni virali, essendo ad esempio considerabile una sorta di ‘protobrony’, interessandosi pubblicamente al mondo di My Little Pony prima che emergesse un fandom maschile legato a questo show. Anche nell’ambito dei let’s play, Chris Chan potrebbe rappresentare un’anticipazione del fenomeno, con i requisiti ideali rispetto a quella che è l’attuale considerazione su questa etichetta. Del resto l’attenzione mediatica sulla sua persona ha contribuito a portare alla luce la maggior parte delle sue interazioni online, comprese quelle di potenziale interesse in questa sede.

La presenza online di Chris Chan è tracciabile perlomeno a partire dal 1999, con un suo sito dedicato ai Pokémon[2], sebbene il “fenomeno” online legato alla sua persona sia esploso solo nel 2007, quando la popolare board di 4chan ha scoperto il suo personaggio Sonichu, ibrido fra Sonic e Pikachu e protagonista di una serie di fumetti autoprodotti e pubblicati su internet.

Sia per l’impulso di Chris Chan di condividere spontaneamente numerosi dettagli della sua vita privata, sia per diverse opere di hacking dei suoi profili, sono attualmente reperibili numerosissime informazioni e testimonianze sulla sua vita. Queste testimonianze comprendono anche un lungo filmato del 2003 dedicato al videogioco Animal Crossing (Nintendo, 2001) che potrebbe costituire un effettivo primo esempio di let’s play[3].

Il documentario let's play di Chris Chan in Animal Crossing
Il “documentario” di Chris Chan in Animal Crossing.

Perché proprio questo?

La possibile candidatura a questo primato è determinata dalla presenza concomitante di numerosi fattori che avvicinano quel video all’ottica contemporanea del let’s play.

La tipologia di commentario, in primo luogo, sembra anticipare i video che sarebbero proliferati su YouTube pochi anni più tardi, con Chris Chan che descrive quanto avviene a schermo, propone una serie di battute (nel suo non sempre comprensibile umorismo) e cerca di coinvolgere il destinatario del filmato.

In secondo luogo è presente una volontà di diffusione. A differenza delle videocassette registrate per tramandare in famiglia il ricordo di un bambino che gioca ai videogiochi, infatti, il video di Chris Chan è stato fin da subito realizzato con l’intento di essere mostrato ad altre persone (Nintendo, in primo luogo).

Bisogna inoltre considerare l’impatto del suo video, con una risonanza sia su un piano ‘istituzionale’ (viene citato nel numero di maggio 2004 della rivista «Nintendo Power») sia per quanto riguarda l’utenza, complice la crescente popolarità che Chris Chan stava ottenendo, anche ‘grazie’ (ma sarebbe meglio dire “purtroppo”) al trolling su 4chan che invitava al recupero delle attività di questo ragazzo per deriderlo. A quest’ultimo punto si collega peraltro la natura di “celebrità” che ha – involontariamente – assunto Chris Chan. La sua figura può probabilmente rientrare nelle “star del trash” (Brilli 2015 e 2016) internazionali, poiché ha attirato una comunità di appassionati più interessati al trolling e alla derisione che a un supporto effettivo. Nondimeno, però, mantiene alcune caratteristiche in comune con le celebrities di YouTube che propongono contenuti legati ai videogiochi.

L’elemento primario che invece lo differenzia dall’attuale concezione del let’s play – al di fuori della qualità video e audio – è l’assenza di editing. Chris Chan mantiene nel suo filmato anche quei tempi morti, legati per esempio al caricamento dei dati, che verrebbero tagliati o velocizzati da uno youtuber. Il riempitivo che propone riguarda una sua performance canora, con alcuni motivetti canticchiati.

È degno di nota, infine, il termine “documentario” utilizzato per descrivere il video. Appare tuttavia piuttosto diverso rispetto agli effettivi e numerosi video documentaristici legati ai videogiochi, che sono presenti su YouTube. L’attività di Chris Chan è un tour delle sue due città virtuali, senza sistematicità e con un soffermarsi su particolari e dettagli spesso inutili o ripetitivi. Tutto ciò viene inoltre affiancato da digressioni sulla vita reale di Chris Chan, elementi che risultano del tutto estranei all’ottica documentaristica, ma sono invece nuovamente vicini alla forma del let’s play, che è spesso utilizzato come una sorta di pretesto per parlare d’altro, da parte degli youtuber.

Bibliografia

Amis (1982): M. Amis, Invasion of the Space Invaders, Hutchinson, London (trad. it. F. Aceto, ISBN Edizioni, Milano 2013).

Brilli (2015): S. Brilli, YouTube freakshow: fama e derisione nei pubblici connessi, tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, a.a. 2014/2015, relatore L. Gemini.

Brilli (2016): S. Brilli, Dal collasso dei contesti alle Trash Star: la serializzazione nella costruzione degli idoli ridicoli di YouTube Italia, «Mediascapes Journal», 7, pp. 153–164.

Kerttula (2019): T. Kerttula, ‘‘What an Eccentric Performance’’: Storytelling in Online Let’s Plays, «Games and Culture», 14(3), pp. 236-255.

Klepek (2015): P. Klepek, Who Invented Let’s Play Videos?, pubblicato il 06/05/2015 su Kotaku.

Lowood (2006), H. Lowood, High–Performance Play: The Making of Machinima, «Journal of Media Practice», 7, 1, pp. 25–42.

Lowood (2008): H. Lowood, La cultura del replay. Performance, spettatorialità, gameplay, in M. Bittanti (a cura di), Schermi interattivi. Il cinema nei videogiochi, Meltemi, Roma, pp. 69–94.

Menotti (2014): G. Menotti, Videorec as Gameplay: Recording Playthroughs and Video Game Engagement, «G|A|M|E: The Italian Journal of Game Studies», 1, 3.


[1] Tero Kerttula (2019) cita anche un caso ulteriore, piuttosto raro ma comunque possibile, in cui gli interventi dello youtuber avvengono tramite dei box inseriti nel video. Viene riportato come esempio il canale PinkKittyRose, la cui proprietaria «narrates her video gameplay with Final Fantasy-style text boxes».

[2] Attualmente non più raggiungibile.

[3] Il video è tutt’ora visualizzabile attraverso dei reuploads come quello di Fokker TISM. Il suo video è peraltro indicato come un possibile primo esempio di let’s play in uno dei numerosi documentari su Chris Chan presenti su YouTube (quello di GenoSamuel). Questo primato è anche sottolineato in diversi commenti nelle boards di 4chan, soprattutto /v/ e /tv/.

Resident Evil 4 Otome Edition – Intervista a Shimmersoft

English interview below

Qui sotto trovate l’intervista che ho fatto a una delle due persone del team creativo Shimmersoft, che ha creato Resident Evil 4: Otome Edition.

Il loro videogioco trasforma la storia di Resident Evil 4 in un otome game, raccontando il tutto dal punto di vista di Ashley.

Resident Evil 4 Otome Edition

Ho parlato del loro gioco nel mio libro CTRL+V-ideogiochi. Storie di rifacimenti e parodie nel medium videoludico. Si tratta di uno dei dieci videogiochi che ho scelto di analizzare all’interno del testo.

copertina libro CTRL+V-ideogiochi

Per l’occasione, ho fatto qualche domanda al team. Qui sotto trovate l’intervista tradotta in italiano, mentre più sotto c’è l’originario testo in inglese.

Alcuni passaggi dell’intervista potrebbero essere poco chiari, se non conoscete il videogioco. Vi consiglio di provarlo, tanto più che è gratuito. Non ne resterete delusi.

Intervista in italiano

1. Come è nata l’idea per Resident Evil 4: Otome Edition?

La storia della sua origine è meno interessante di quanto tu possa sperare. Nel 2014, il co-fondatore dello studio e io avevamo iniziato a interessarci a fruire insieme giochi otome (dopo aver consumato alcuni visual novel come Ace Attorney e Zero Escape). Dopo aver provato alcuni giochi otome sul mercato mobile e realizzati da sviluppatori indipendenti, abbiamo avuto per caso una conversazione su quali giochi AAA dalla nostra esperienza comune avessero gli elementi di base (ad esempio, una protagonista femminile e almeno due personaggi maschili) adatti per una conversione otome. Inizialmente avevamo considerato Silent Hill 3, ma Heather sembrava troppo giovane e le sue opzioni non sembravano… adeguate (Vincent? Douglas?? Valtiel???). Ma, pensando a Heather, ci è venuta in mente un’altra donna bionda in un popolare gioco horror: Ashley Graham di Resident Evil 4. E poi è scattata l’illuminazione. Chi non si era mai lasciato conquistare da Leon S. Kennedy? Il gioco era molto amato, con una trama kitsch e una damigella in pericolo che era quasi una tabula rasa. Sembrava essere il candidato perfetto per la parodia un gioco otome (un “fauxtome”, come lo chiamavo qualche volta).

Quell’anno, ho iniziato alcuni prototipi iniziali su un motore chiamato Novelty, che è stato successivamente abbandonato. Il lavoro era estremamente grezzo; avevo giocato ai videogiochi per tutta la mia vita, ma non avevo mai creato un visual novel prima né lavorato con un engine di gioco, quindi c’era un’intensa curva di apprendimento. Ho sperimentato per alcuni mesi, ma per motivi personali ho accantonato il progetto per un anno. Ho trafficato con esso nel corso del 2015 e del 2016, principalmente durante la notte prima di andare a dormire, finché alla fine ho avuto materiale fino alla scena della capanna. A marzo del 2017, ho deciso semplicemente di pubblicare ciò che avevo e vedere cosa succedeva. In qualche modo, è diventato abbastanza popolare: alcuni siti web di videogiochi hanno trovato la demo e abbiamo avuto un grande numero di download per circa una settimana. C’era sia entusiasmo sia preoccupazione davanti a questa reazione, poiché era più che altro un proof-of-concept e aveva pochissima rifinitura. L’attenzione del pubblico è arrivata anche al dipartimento legale di Capcom, che non ha davvero apprezzato il mio uso inalterato di alcuni asset dei personaggi. Ho avuto uno scontro con loro riguardo alla permanenza del progetto e alla fine la situazione si è risolta. Ma l’interesse era così grande che mi sentivo a mio agio nell’impegnarmi nel progetto e ho trascorso i successivi quattro anni ridisegnando efficacemente l’intera cosa: sia per garantire di essere al sicuro dentro ai limiti del Fair Use, sia per realizzare appieno il potenziale dell’idea. Volevo che Otome Edition avesse abbastanza rifinitura (almeno per un team indipendente di due persone) affinché le persone lo accettassero come un rispettabile companion product rispetto al gioco originale. E, se mi è permessa un po’ di immodestia, penso che ci siamo riusciti.

2. In Otome Edition, Ashley è un personaggio mentalmente attivo, con agency. È interessante la sovrapposizione tra questi elementi e la storia originale, in cui lei è una damigella in pericolo. È stato impegnativo raggiungere questo equilibrio? Era intenzionalmente ricercato o è emerso per caso durante lo sviluppo?

Fin dall’inizio, volevamo esplorare questa tensione tra i media: tra l’action che la tratta come un obiettivo e il visual novel che la considera come una protagonista. Per prendere in prestito un sentimento da Hannah Gadsby, il tratto distintivo della commedia è la gestione della tensione e sapevamo che il valore umoristico sarebbe derivato dalla creazione di quanto più attrito possibile tra Ashley come persona e Ashley come meccanica di gioco. Quindi eravamo molto consapevoli di tale attrito durante tutto il processo, anche se la scrittura attorno ad esso si è strutturata man mano che il gioco si sviluppava.

Ad esempio, una caratteristica strana di Ashley che volevo esplorare era la sua apparente passività durante gran parte del gioco e poi la sua improvvisa propensione a proporre a Leon un rapporto sessuale sulla moto d’acqua. Naturalmente, c’è una lettura molto superficiale di questo comportamento: la scrittura semplicemente non è così sofisticata (ora sappiamo che Mikami ha scritto la sceneggiatura principale in meno di un mese), quindi si adagia pigramente su questa fantasia machista dell’uomo attraente che salva la damigella e lei offre un rapporto sessuale come ricompensa. Ma ho cercato di vederlo da un angolo diverso: come uno dei momenti più ricchi di agency di Ashley, un’espressione del suo “vero” io, finalmente libera dalle trappole delle meccaniche di gioco – una persona che era spaventata e finalmente si sentiva abbastanza sicura da essere un po’ civettuola. E se quello era il suo vero io, cosa (oltre alla paura) potrebbe averlo soppresso in precedenza? La risposta è diventata ovvia: la sua “submissive” plaga! Quell’elemento della trama è poi diventato un veicolo per la cornice otome.

Il momento in cui Otome Edition raggiunge veramente il suo apice è quel primo famigerato “bishie sparkle[1]. Ho dedicato parecchio lavoro a ottenere la transizione e l’animazione giuste perché è cruciale per trasmettere il concetto. Ho apprezzato guardare diverse persone che scoppiavano a ridere quando quel momento accade – e credo che la battuta funzioni bene perché incarna perfettamente questa tensione tra i due media che improvvisamente collassano in un’immagine ridicola (mi sembrava molto importante che i capelli di Leon passassero da statici, nell’immagine precedente, a muoversi delicatamente nella successiva). Da un lato, hai un classico trope di un gioco otome che inquadra l’interesse amoroso con bolle e scintillii per catturare lo spirito di un’attrazione improvvisa e travolgente; dall’altro lato, hai questa trama sulla submissive plaga che esercita la sua misteriosa influenza. E anche se non è ovvio in quel momento iniziale, ho scritto il resto del gioco intorno a una domanda esistenziale: il parassita sta cambiando il carattere fondamentale di Ashley o sta solo accentuando alcune caratteristiche che esistono già? Il suo attaccamento per le opzioni romantiche scaturisce dal suo cuore… o dal parassita che è accanto ad esso?

Con quella struttura in mente, ho quasi completamente riscritto quegli episodi iniziali della demo. Quando Ashley incontra per la prima volta Krauser, ad esempio, ha quella “voce della moto d’acqua” che si bilancia tra la sicurezza e la timidezza: la voce di una giovane donna che va all’università, con alcuni interessi eccentrici e un po’ viziata, ma che ha attraversato ambienti sociali politicamente sensibili abbastanza a lungo da sapere come gestire l’immagine e adottare una performance femminile “normale” (come piace ricordare al burbero e sfrontato Krauser, « we have to anticipate the optics»). Ma poi il risveglio della plaga modifica la sua voce, in modo che la tensione tra il gioco d’azione e il simulatore di appuntamenti diventi davvero una negoziazione di chi è lei di fronte a questa terribile – e spesso stupida – esperienza. Mantenere questo equilibrio non è sempre stato facile, non è nemmeno stato costantemente fatto; sono sicuro che ci sono momenti in cui ho sacrificato un po’ di profondità potenziale per una battuta grezza. Ma spero che l’esperienza complessiva spinga le persone a chiedersi: chi è davvero Ashley Graham?

3. Qual è stata la scena di Resident Evil 4 che vi è piaciuto di più reimmaginare?

La famigerata “water room” è stata senza dubbio la rielaborazione più elaborata e assurda. Mi piace scherzare dicendo che Otome Edition contiene la più lunga sequenza di giochi di parole in un videogioco e, onestamente, potrebbe essere davvero così! Abbiamo sviluppato una battuta ricorrente nel gioco, con Ashley che non sente con chiarezza le persone malvagie e ciò si è evoluto in un fraintendimento dei membri di Los Illuminados che pronunciavano “cerebros” in modo tale che l’enfasi fosse come “cereBROs”. È molto semplice, ma a volte una battuta semplice diventa divertente se la porti oltre ogni ragionevole limite.

La water room è una sezione lunga e stressante nel gioco originale. Volevamo catturare quella sensazione di fatica e allo stesso tempo sorprendere i giocatori con un approccio non convenzionale, quindi abbiamo inquadrato il tutto come uno “show” (che ricorda The Daily Show, The Colbert Report, ecc.) pensato per aiutare Ashley a far fronte al suo trauma legato alla stanza. Questo approccio meta ci ha permesso di esplorare non solo il personaggio di Ashley (ad esempio, ci siamo davvero concentrati su una battuta ricorrente sul suo amore per i biscotti della fortuna), ma anche la variegata fauna dei Los Illuminados. Ci sono “DumBRO”, “SlowBRO”, “CrossBRO”, “BROmeo” e altri – persino una breve pubblicità per “BROgaine”! Il nostro co-fondatore ha registrato diverse partite di quella stanza in modo che avessimo molto materiale che Ashley avrebbe presentato nello show, la maggior parte del quale è solo Leon che spara alle persone in modi cool (e non così cool). C’è persino una piccola cinematic di apertura (mi ispiravo al tipo di montaggi introduttivi che potresti vedere negli show sportivi o su PBS)[2] dove gli osservatori attenti noteranno un riferimento alla testa dell’originario zombie del primo Resident Evil. È tutto molto divertente.

Direi che l’episodio della water room è la quintessenza dell’esperienza di Otome Edition: un tentativo di plasmare il contenuto originale in una nuova forma sorprendente che rispetti e ridicolizzi il materiale di origine allo stesso modo. Abbiamo un uso elaborato della nostra stop-motion, una gamma completa di espressioni fatte a mano per Ashley, battute e riferimenti a non finire ed è tutto molto divertente. Onestamente, l’intera scena era così indulgente verso le battute che il nostro co-fondatore ha insistito affinché io desse alle persone la possibilità di saltare completamente all’intero episodio, per evitare la “pun-izione”[3], come spiega Ashley.

4. Come è nata l’idea delle personalità alternative di Ashley?

Quell’idea si è sviluppata gradualmente. All’inizio dello sviluppo del Capitolo 1 (il villaggio), c’è stato l’ingrato lavoro di creare due percorsi completi dopo la scena della capanna: il percorso di El Gigante o il percorso degli abitanti del villaggio, perché era una delle poche “scelte” legittime che Ashley può vivere. A causa di ciò, volevo che la divisione del percorso avesse ripercussioni per tutto il gioco (un richiamo ad alcune vecchie visual novel in cui una scelta apparentemente piccola all’inizio ha ripercussioni più grandi lungo il percorso, che non avresti potuto prevedere). Allo stesso tempo, stavo già lavorando con il concetto che lo stress stesse esasperando il parassita di Ashley e stavo pensando a come esprimere tale stress. Entrambi i percorsi sono molto stressanti a loro modo, quindi sembrava il momento naturale per alzare l’asticella e sorprendere i giocatori con qualcosa, o qualcuno, di nuovo.

Inizialmente c’era solo un alter ego, quello che alla fine è diventato Lashley. Il nostro co-fondatore, che ha realizzato la grafica per tutti gli alter ego, aveva originariamente realizzato un busto stilizzato di Ashley che non era stato effettivamente utilizzato per nulla di significativo. Mentre stavo sviluppando il percorso di El Gigante, ho deciso di utilizzare quella illustrazione come personaggio, catturando l’idea che la psiche di Ashley si stesse frantumando e formando nuove identità per proteggersi (o alternativamente, che il parassita stesse evolvendo e cercando di manipolarla: è pensato per essere letto in entrambi i modi).

Poiché gran parte del gioco consiste solo nei pensieri di Ashley, sembrava importante fornire un’altra “voce” che potesse interromperne la monotonia, aggiungere un po’ di intrigo e ravvivare il ritmo. Ci piaceva l’idea. Ma una volta che il primo alter ego era stato inserito, sembrava troppo semplice riutilizzare lo stesso elemento nel percorso con gli abitanti del villaggio. È in quel momento che ho ricordato alcune concept art originali di Ashley, che sono state riproposte in quella che è diventata Trashley (poiché appare durante il secondo viaggio di Ashley nel cassonetto della spazzatura). Questi personaggi sono diventati “frammenti” della personalità di Ashley: Lashley, dolce e bella e che indulge nella fantasia; Trashley, grossolana e rozza e ancorata alla realtà. L’azione intensa in quegli episodi è diventata un dispositivo di inquadramento per la negoziazione di sé che sta avvenendo tra Ashley e i diversi frammenti della sua personalità.

Mi piacevano così tanto questi personaggi che non volevo abbandonarli immediatamente, ma ero d’accordo con il co-fondatore sul fatto che avrebbero potuto rimanere più del necessario, finendo per annoiare. Quindi li abbiamo tenuti per l’episodio successivo e abbiamo cercato un modo per “silenziarli” fino a quando non fossimo pronti a usarli di nuovo. Successe così che, mentre il co-fondatore stava registrando delle riprese sulla gondola, smise di prestare attenzione e un abitante del villaggio riuscì a lanciare un’ascia direttamente alla testa di povera Ashley. Ecco fatto: trauma cranico, la scusa perfetta per costringere gli alter ego al silenzio (e al contempo avevamo una gaffe molto divertente).

Più avanti nello sviluppo del Capitolo 2, volevo riportare gli alter ego, ma era difficile trovare il momento giusto. Sapevo che doveva essere lungo a sufficienza da far sì che i giocatori fossero sorpresi dalla loro riapparizione improvvisa. Il segmento di gioco in solitaria di Ashley sembrava la scelta migliore: avevo pianificato che fosse piuttosto lungo e elaborato, un richiamo ai giochi di avventura punta e clicca e a Clocktower su SNES. Avere altre voci avrebbe creato maggior tensione e avrebbe personalizzato l’esperienza. Quindi, mentre Ashley è bloccata contro il muro del castello, abbiamo riportato Trashley e Lashley in nuove forme: Cashley e Slashley. Il moralismo sarcastico di Trashley si è trasformato nella cupidigia spensierata di Cashley; l’ottimismo e l’affetto di Lashley si sono distorti nel pessimismo e nella violenza di Slashley. Questa decisione ha comportato molto lavoro aggiuntivo, poiché richiedeva una serie di conditional texts nella parte di gameplay con Ashley e in alcuni segmenti successivi nel Capitolo 3. Ma si inseriva nel nostro tema esistenziale: come comprendere dove inizia il personaggio di Ashley e dove finisce l’influenza del parassita?

5. Potrebbe esserci una Otome Edition per un altro capitolo di Resident Evil? Ci avete mai pensato, almeno ipoteticamente?

Molte persone ce lo hanno chiesto e certamente ho preso in considerazione la possibilità, ma Otome Edition ha richiesto oltre quattro anni per essere realizzato (e diversi mesi in più per perfezionarlo, successivamente) e, in tutta sincerità, emotivamente non mi metterei di nuovo su un progetto del genere. Ma anche se così non fosse, non so se gli altri giochi si presterebbero in modo così naturale al framework. Resident Evil 4 era un candidato davvero eccellente perché le storie di guardie del corpo sono molto comuni nei giochi otome e Ashley era come un contenitore vuoto, che si adattava perfettamente al modello di una eroina otome standard (silenziosa, un po’ maldestra, attraente in modo carino, travolta dalle bravate degli uomini, ecc.). Inoltre, Ashley aveva una reputazione così negativa tra i fan (per lo più ingiusta, viste circostanze) che volevamo renderla un personaggio completamente realizzato, che le persone potessero amare. Sulla base delle risposte ottenute, credo che ci siamo riusciti e sono molto soddisfatto della felicità che il nostro gioco ha portato alle persone.


[1] Bishie è una abbreviazione di bishounen, termine che indica un ragazzo (o talvolta un uomo) molto affascinante e ricco di fascino.

[2] PBS sta per Public Broadcasting Service. È un’azienda no-profit statunitense di television pubblica.

[3] Qui c’è un gioco di parole difficilmente traducibile: punishment, tra pun (gioco di parole) e punishment (punizione, castigo).

English Interview

  1. How did the idea for Resident Evil 4: Otome Edition come about?

The origin story is less interesting than you might hope. Back in 2014, the co-founder of the studio and I were newly interested in reading otome games together (after consuming some visual novels like Ace Attorney and Zero Escape). After we had experienced a few otome games on the mobile market and from indie developers, we randomly had a conversation about what AAA games from our shared experience had the basic elements (e.g., female protagonist and at least two males) for an otome conversion. We initially considered Silent Hill 3, but Heather seemed too young and her options didn’t seem… appropriate (Vincent? Douglas?? Valtiel???). But thinking about Heather brought to mind another blonde woman in a popular horror game—Resident Evil 4’s Ashley Graham. And then the lightbulb went off. Who hadn’t swooned over Leon S. Kennedy? The game was well loved, with a cheesy story line, and an almost completely blank-slate damsel in distress. It seemed like a perfect candidate for a parody otome game (a “fauxtome”, as I sometimes called it).

So that year, I started some initial prototyping on a since-abandoned engine called Novelty. The work was exceedingly rough; I had played video games all my life, but had never made a visual novel before or worked in a game engine, so there was a heavy learning curve. I messed around for a few months, but for life reasons, I shelved the project for a year. I tinkered with it through 2015 and 2016, mostly during the night before going to sleep, until I eventually I had material up until the cabin scene. By March of 2017, I decided to just publish what I had and see what happened. Somehow, it blew up a bit – some gaming websites found the demo and we were swimming in downloads for about a week or so. I was both elated and horrified by the response—it was very much a proof-of-concept and had very little polish. The public attention also made its way to Capcom’s legal department, which really didn’t appreciate my unaltered use of some character assets. I had a spat with them about the project remaining up and eventually that blew over. But the interest was great enough that I felt comfortable committing to the project and spent the next four years effectively redesigning the whole thing—both to ensure I was safely in the bounds of Fair Use and to fully realize the idea’s potential. I wanted Otome Edition to have enough polish (for a two-person indie developer, at least) that people would accept it as a respectable companion product to the original game. And, if I can be allowed the immodesty, I think we got there.

2. In Otome Edition, Ashley is a mentally active character with agency. The overlap between these elements and the original story, where she is a damsel in distress, is interesting. Was it challenging to achieve this balance? Did you intentionally seek it, or did it emerge by chance during development?

From the beginning, we wanted to explore this tension between mediums—where the action game treats her like an objective and the visual novel treats her like a protagonist. To borrow a sentiment from Hannah Gadsby, comedy is all about the management of tension and we knew the humor value would stem from creating as much friction as possible between Ashley the person and Ashley the gameplay mechanic. So we were very conscious of that friction the whole way through, although the writing around it became more robust as the game developed.

For instance, one odd feature of Ashley that I wanted to explore was her seeming passivity during most of the game and then her sudden eagerness to proposition Leon for sex on the jet ski. Of course, there’s a very superficial read of this behavior: the writing just isn’t that sophisticated (we know now that Mikami penned the main script in less than a month) so it lazily plays into this machismo fantasy of the hot guy saving the damsel and her offering sex as a reward. But I tried to see it from a different angle: as one of Ashley’s most agentic moments, an expression of her “real” self, finally free of the game’s mechanical trappings—a person who had been scared and finally felt secure enough to be a little flirtatious. And if that was her real self, what (other than base fear) might have been suppressing it? The answer eventually became obvious—her “submissive” plaga! That plot device then became a vehicle for the otome framing.

The moment where Otome Edition really hits its stride is that first infamous “bishie sparkle”. I put quite a bit of work into getting the transition and animation on that right because it’s pivotal to selling the concept. I’ve enjoyed watching several people burst out laughing when that moment happens—and I believe the joke lands well because it neatly embodies this tension between the two mediums suddenly collapsing into a ridiculous image (it seemed very important to me that Leon’s hair should go from being static in the preceding image to blowing softly). On the one hand, you have a standard otome game trope of framing the love interest with bubbles and sparkles to capture the spirit of sudden, overwhelming attraction; on the other hand, you have this plot about the submissive plaga exerting its mysterious influence. And although it’s not obvious at that early juncture, I did write the remaining game around an existential question: Is the parasite changing Ashley’s fundamental character—or just accentuating certain features that already exist? Is her affection for her romance options arising from her heart… or from the bug that’s nestled next to it?

With that frame in mind, I did almost completely rewrite those initial demo episodes. When she first meets Krauser, for instance, she has that “jet ski voice” that balances between confidence and bashfulness—the voice of a young college-aged woman who has some quirky interests and is a little spoiled, but who has moved through politically sensitive social circles for long enough that she knows how to image-manage and adopt “normal” feminine performance (as she likes to remind the very gruff and brazen Krauser, “we have to anticipate the optics”). But then the awakening of the plaga alters her voice, so that the tension between action game and dating sim really becomes a negotiation of who she is in the face of this horrible – and often stupid – experience. Maintaining this dance was not always easy or even consistently done; I’m sure there are moments where I sacrificed some potential depth for a crude joke. But I hope the overall experience compels people to wonder: Just who is Ashley Graham?

3. What was the scene from Resident Evil 4 that you enjoyed reimagining the most?

The infamous “water room” was easily the most elaborate and absurd reimagining. I like to joke that Otome Edition contains the longest procession of puns in a video game and honestly, that might be accurate! We developed a running gag in the game that Ashley doesn’t hear evil people clearly and that evolved into a mishearing of Los Illuminados members saying “cerebros” so that the emphasis is like “cereBROs”. It’s very cheap, but sometimes a cheap joke becomes funny if you take it far beyond reasonable bounds.

The water room is a long and stressful section in the original game. We wanted to capture that feeling of slog while also surprising players with an unconventional approach, so we framed the whole thing as a “show” (reminiscent of The Daily Show, The Colbert Report, etc.) meant to help Ashley cope with her trauma about the water room. This meta approach let us explore not only Ashley’s character (e.g., we really leaned in to a running gag about her love of fortune cookies), but also the colorful cast of Los Illuminados. There’s “DumBRO”, “SlowBRO”, “CrossBRO”, “BROmeo”, and others—even a brief infomercial for “BROgaine”! Our co-founder recorded several playthroughs of that room so that we would have lots of footage that Ashley would present on the show, most of which is just Leon shooting people in cool (and not-so-cool) ways. There’s even a little opening “cinematic” (I was channeling the kind of intro montages you might see on sports shows or PBS) where eagle-eyed fans will spot a reference to the original Resident Evil zombie head turn. It’s all very silly.

I would say the water room episode is the quintessential Otome Edition experience—an attempt to mold the original content into a surprising new form that respects and ridicules the source material to equal degrees. We’ve got elaborate use of our stop-animation, a full range of handmade expressions for Ashley, jokes and references galore, and it’s just a lot of fun. Honestly, the whole scene was so indulgent that our co-founder demanded I give people a chance to simply opt out of the entire episode upfront—to sidestep the punishment, as Ashley explains it.

4. How did the idea of Ashley’s alternative personalities come about?

That idea unfolded in steps. Early on in the development of Chapter 1 (the village), I committed to the thankless work of doing two full paths after the cabin—the El Gigante path or the villager path—because it was one of the only legitimate “choices” that Ashley can experience. Because of that, I wanted the path split to have ramifications throughout the game (a throwback to some older visual novels where a seemingly small choice early on has bigger ramifications down the road that you couldn’t possibly have anticipated). At the same time, I was already working with the concept that stress was exacerbating Ashley’s parasite and thus thinking of expressions for said stress. Both paths are very stressful in their own ways, so it seemed like a natural time to raise the stakes and surprise players with something—or someone—new.

At first, there was only one alter ego—what eventually became Lashley. Our co-founder, who did the art for all the alter egos, originally did a stylized bust of Ashley that wasn’t really being used for anything meaningful. As I was developing the El Gigante path, I decided to use that art piece as a character—capturing the idea that Ashley’s psyche was fracturing and forming new identities to protect itself (or alternatively, that the parasite was evolving and trying to manipulate her; it’s meant to be read both ways).

Since so much of the game is just Ashley’s thoughts, it seemed important to provide another “voice” that could break up the monotony, add a little intrigue, and freshen up the pacing. So we liked the idea. But once that first alter ego was in place, it seemed cheap to simply reuse the same asset on the villager path. That’s when I remembered some original concept art of Ashley, which got repurposed into what became Trashley (since she appears during Ashley’s second trip to the dumpster). These characters became “shards” of Ashley’s personality—Lashley, sweet and beautiful and indulgent in fantasy; Trashley, coarse and homely and committed to reality. The intense action in those episodes became a framing device for the negotiation of self that’s transpiring between Ashley and her different shards.

I liked these characters so much that I didn’t want to abandon them immediately, but I agreed with the co-founder that they might overstay their welcome. So we kept them for the subsequent episode and looked for a way to “silence” the voices until we were ready to use them again. It just so happened that, while the co-founder was recording footage on the gondola, she stopped paying attention and one lone villager managed to throw an axe directly at poor Ashley’s head. There it was: Head trauma, the perfect excuse for forcing the alter egos into dormancy (while also just being a very funny goof).

Later on in the development of Chapter 2, I wanted to bring the alter egos back, but wasn’t exactly sure what the right moment was. I knew it should be long enough that players would be surprised by the sudden reappearance. Ashley’s solo gameplay segment seemed like the best bet—I planned for it to be pretty long and elaborate, a throwback to point-and-click adventure games and to Clocktower on the SNES. Having other voices would create more drama and make for a more tailored experience. So while Ashley was stuck on the castle wall, we brought Trashley and Lashley back in new forms—Cashley and Slashley. Trashley’s wry moralism turned into Cashley’s flippant greed; Lashley’s optimism and affection warped into Slashley’s pessimism and violence. This decision created a lot of extra work, since it required a bunch of conditional text in Ashely’s gameplay segment and in some later segments in Chapter 3. But it fed into our existential theme: How could you tell where Ashley’s character begins and the parasite’s influence ends?

5. Could there be an Otome Edition for another chapter of Resident Evil? Have you ever thought about it, hypothetically?

People have asked us about it and certainly I’ve considered the possibility, but Otome Edition took over four years to realize (and several more months to fine-tune afterward), and to be totally real, I’m not emotionally ready to take on that kind of project again. Even if I was, I don’t know if any of the other games would lend themselves so naturally to the framework. RE4 was such a great candidate because bodyguard stories are very common in otome games and Ashley was such a empty vessel who neatly fit the mold of a standard otome heroine (e.g., quiet, a little clumsy, attractive in a cute way, swept up into men’s hijinks, etc.). Also, Ashley just had such a bad reputation among the fan base (most of which is unfair, given her circumstances) that we wanted to make her a fully realized character that people could love. Based on responses, I think we accomplished that and I’m very satisfied with the happiness our game has brought people.

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