Eternal Champion: uno dei libri che ha ispirato Elden Ring

NOTA: Questo articolo è una trascrizione di un video presente sul mio canale YouTube. Realizzo queste trascrizioni per coloro che hanno bisogno di cercare (o citare) facilmente un punto specifico del video. O che preferiscono la lettura all’ascolto.

Rispetto al video il testo è leggermente modificato per rendere la lettura più scorrevole. Visto che l’originale è un video – quindi un contenuto discorsivo – non ha ovviamente lo stesso grado di approfondimento di un contributo pensato per essere in forma scritta. Per quelli vi rimando all’elenco delle mie pubblicazioni.

Video: Eternal Champion: uno dei libri che ha ispirato ELDEN RING

Bene signore e signori siamo qui per parlare di uno dei libri che hanno ispirato Elden Ring e in generale Hidetaka Miyazaki. Se non mi conoscete Io sono Francesco Toniolo, sono un professore universitario esperto di videogiochi.

Tra le varie cose ho scritto due libri proprio sui Souls, anzi sui vari giochi di FromSoftware legati alla serie: “Queste anime oscure” e poi “Le nuove anime oscure“, andate a comprarli, date un occhio.

Tra non molto uscirà un mio libro proprio su Elden Ring [nota: il libro nel frattempo è stato pubblicato, si chiama Interpretare Elden Ring], legato all’interpretazione di questo videogioco che ha chiaramente tutta una serie infinita di possibilità interpretative molto interessanti, meritevoli di essere approfondite.

Quindi sarà una sorta di grande guida di panoramica all’aspetto interpretativo, non strettamente legata alla lore ma a tutto ciò che dalla lore va a emergere come visione del mondo. Mentre scrivevo questo libro, ovviamente, ho riguardato tutta una serie di informazioni legate appunto a Elden Ring con i suoi annessi e connessi.

Una questione particolare che è saltata all’occhio è quella appunto delle ispirazioni dichiarate. Ce ne sono tante anche chiaramente non dichiarate che ritornano nel tempo. Banalmente Berserk di Miura, e qui siamo d’accordo.

Però appunto in un’intervista Hidetaka Miyazaki aveva citato alcune delle ispirazioni da cui era nato Elden Ring. Tra queste c’era, ed è abbastanza ovvio, il caro Tolkien col suo Signore degli anelli e soprattutto Il Silmarillion, tutta la parte ancestrale. Lì c’è molto da dire e in questo libro che sto scrivendo ne parlo tanto quindi tenetelo anche d’occhio.

Nel frattempo se non l’avete già fatto potete portarvi avanti in termini di curiosità potete guardare “Queste anime oscure” e “Le nuove anime oscure” che sono i miei libri che ho scritto sui Souls. C’è anche un capitolo in entrambi su Elden Ring. Uno sulle rovine: la questione delle rovine e il passato di Elden Ring scritto con Stefano Caselli. Un altro sui funghi in Elden Ring sempre con Giulia Martino.

Comunque dicevo, Tolkien è piuttosto ovvio. L’altro nome mi ha stupito. Non tanto per il fatto che venisse citato, ma per il fatto che quasi nessuno ne ha parlato. Cioè, cercando, sì c’è qualche conversazione su Reddit che lo cita, ma la maggior parte delle fonti si è limitata a dire “ah Miyazaki ha detto di aver citato questa cosa, di averlo preso come ispirazione”. Che cos’è?

È questo libro qui di Michael Moorcock: The Eternal Champion, che è il primo libro di una serie di Moorcock, che sono tre volumi di base ma in realtà si collega in modo più ampio a tantissime altre opere di Moorcock. Qui va proprio a esplicitare una sorta di metaverso. Ecco che si ha un personaggio che attraversa vari universi, che sono in qualche modo collegati tra di loro.

Diciamo tanto brevemente quella che è la storia, perché almeno in Italia non è così noto. C’è un signore (John Daker), un uomo della nostra realtà più o meno noi contemporaneo, che una notte, improvvisamente, inizia ad avere questi sogni dove c’è una voce che lo chiama. Lo chiama con un altro nome (Erekosë) e si trova poi sostanzialmente trasportato, traslato, in quest’altro mondo. Non si capisce se sia un passato estremamente remoto, se sia un futuro estremamente remoto, se siamo sempre nella sulla nostra terra, se sia una terra parallela, se sia un ibrido tra queste cose…

Si ritrova in questa tomba di un antico eroe che, come diceva il mito, si sarebbe risvegliato nel momento di massimo bisogno per l’umanità. Perché l’umanità è in guerra contro un’altra specie: gli Eldren. Essi sono presentati come malvagi, infingardi, traditori, pericolosissimi.

E allora ecco che il re dell’umanità, che ha radunato tutte le tribù e i popoli dell’umanità, per unirsi contro questa minaccia, risveglia questo campione. Erekosë inizia a fare tutta una serie di combattimenti. Nel frattempo scopre che, in realtà, gli umani sono poco più che bestie, mentre invece quest’altra specie, gli Eldren, sono creature non solo molto più avanzate ma anche con un’etica e una morale molto superiore.

Il loro agire è inconcepibile per quelli che sono gli standard umani. Gli Eldren hanno in realtà una tecnologia molto più avanzata, ma accettano di giocare ad armi pari, andando a combattere con archi, lance e cannoni. Le armi che hanno anche gli esseri umani. E a costo anche di essere sterminati loro non cambiano questa cosa qui.

Gli Eldren non cercano il conflitto, in realtà sono semplicemente interessati a starsene per per i fatti propri. Sono esseri immortali quindi ricordano anche il tempo in cui gli esseri umani arrivarono su questo pianeta e ci fu una sorta di lotta apocalittica, con armi di distruzione di massa da entrambe le parti.

Dopo tutta una serie di vicissitudini, il campione cerca di trovare un accordo tra le due parti, in vario modo. Fino all’ultimo cerca la pace. Poi, alla fine, prima inizia a sterminare gli Eldren, mosso proprio da una sorta impeto di rabbia, senza rendersene conto. Gli ultimi sopravvissuti si sono rintanati nella loro capitale. Ed Erekosë a un certo punto cambia radicalmente prospettiva.

Per una serie di ragioni cambia schieramento. Convince questi Eldren a recuperare queste antiche armi. Così l’esercito degli umani, questo milione di soldati, in un’ora viene spazzato via da questa potenza. Poi lui non si ferma: va ad annientare qualsiasi umano rimasto sul quel pianeta, perché ha capito che non può esserci pace finché una delle due parti non si sarebbe estinta. Ma immagina che, estintisi gli Eldren, probabilmente tutte le tribù umane avrebbero ripreso a farsi guerra tra di loro. Invece gli Eldren sono disinteressati in realtà al conflitto.

Quindi immaginiamo, prospettiamo questo lungo periodo di pace. Eterno forse no. Qui si chiude il discorso del libro con questo interrogativo: un domani, in un futuro remoto, potrebbero ritornare in realtà gli esseri umani su questo pianeta.

Qui ci si torna anche alla concezione ciclica del tempo che viene presentata dagli Eldren che è un aspetto interessante rispetto a Elden Ring, che abbiamo un attimo messo da parte, ma su cui adesso torniamo.

Un’ultima cosa: mentre Erekosë vive tutto ciò, capisce che è questa sorta di campione eterno, quindi un’entità oltre il tempo lo spazio, che volta per volta va a incarnarsi in tutta una serie di eroi, di condottieri, di guerrieri che sono chiamati a combattere determinate battaglie in contesti volta per volta differenti. Infatti due libri successivi viene di nuovo trasportato in altri mondi.

Comunque per quello che dobbiamo dire su Elden Ring ci basta questo. Probabilmente un po’ di persone che hanno giocato al gioco potrebbero anche avere iniziato a pensare che, in effetti, già all’inizio del gioco, quando c’è questo ritorno dei Senzaluce, potrebbe somigliare al campione eterno. Quindi il risveglio del campione, chiamato nel momento del bisogno. Cosa che in Elden Ring è un po’ più diluita.

Perché in Eternal Champion viene chiamato, nello specifico, questo singolo individuo, Erekosë. In Elden Ring invece abbiamo diversi Senza luce. Molti i chiamati, pochi gli eletti. Uno di loro alla fine diventa il nuovo sovrano, però molte persone sono appunto chiamate questo incarico.

Inoltre non è un tema così specifico, perché qui siamo nell’ottica di quello che è questa sorta di grande mito, di grande racconto, che troviamo in tutta una serie di contesti. Si chiama “il re nella montagna”.

Questa idea del re, dell’antico sovrano dormiente, che un giorno ritornerà nel momento in cui il suo popolo affronterà il massimo pericolo. Si vede spesso con Re Artù per esempio. C’è molto questa idea nella tradizione arturiana, come re dormiente, re nella montagna, che appunto un giorno tornerà a ribaltare le sorti del suo regno.

Quindi siamo più o meno in quell’ottica lì, sia con Eternal Champion di Moorcock sia con Elden Ring. In questo caso non parliamo di sovrani, o meglio, parliamo di persone che sono sovrani in potenza. Potenzialmente possono diventare sovrani. I molti dei finali si arriva a occupare il trono. In altri c’è comunque questo senso di regalità, anche in quello di Ranni, l’unico un po’ a parte insieme a quello della fiamma frenetica.

Ecco questa chiamata alla regalità è un concetto abbastanza ampio, trasversale, quindi forse non serviva scomodare nello specifico Eternal Champion.

Però ci sono altre cose interessanti che citavo anche prima. Questo aspetto della visione ciclica del tempo: c’è proprio un passaggio in particolare che è interessante, dove c’è una principessa degli Eldren che dice che, per il suo popolo, passato e futuro sono dei concetti abbastanza relativi, su cui non vanno perderci troppo tempo. Perché per loro il tempo è ciclico, proprio nel senso che in tempi molto remoti ciò che era tornerà a essere, quindi appunto passato e futuro sono in un certo senso la stessa cosa.

E aggiunge che loro hanno delle storie, hanno una storia. Però la storia non è il tempo, c’è una distinzione molto interessante, che aprirebbe centomila discorsi anche su tutta la concezione storiografica. E anche su Elden Ring ha molto da insegnarci anche quest’ultimo fatto.

Perché effettivamente, se ci pensiamo, tutte le teorie di cui vi parlavo, tutte le interpretazioni che partono dalla lore e del suo significato, del suo messaggio, che non è affatto banale perché veramente si può declinare in tanti modi, derivano anche da assunti di storie che vengono raccontate, tramandate, spesso in versione di frammenti, lacerti, tasselli sparsi.

Come sa benissimo ha giocato sia Elden Ring sia Dark Souls e gli altri videogiochi di Hidetaka Miyazaki. Il tempo effettivamente non è l’ordine cronologico degli eventi. Lo si spiega a posteriori in modo da dare un senso unitario al concetto di tempo. Certo poi, visto che si tratta di un’opera di finzione, quindi che c’è dietro un genio creativo, una mente che ha dato un ordine, immaginiamo che quell’ordine abbia una sua coerenza, per quanto difficile da ritrovare. E che quindi quelle tracce che troviamo diano effettivamente un senso al tutto, che siano parti di un insieme unitario. Per questo si va a interpretarle. Però attenzione. Bisognerebbe ricordare anche che non è così scontato, non è così banale.

Il tempo ciclico chiaramente è un altro un elemento che ritorna tantissimo nei vari Souls. C’è questa idea di una sorta di di ciclicità continua tra passato e futuro. Quindi il passato e il futuro vanno a rincorrersi. Nell’ottica che presentano gli Eldren. Per loro il futuro torna effettivamente a essere il passato.

Prendiamo banalmente anche Dark Souls come esempio. Ravvivare la fiamma cosa vuol dire? Si va a riproporre volta per volta un ciclo che è anche visto in un’ottica degradante, degenerativa. Il mondo rimane intrappolato in questa cosa: non è una visione positiva di ciclicità, al contrario del rinnovamento stagionale, che è molto comune a tante visioni anche del passato. E anche le età del mondo seguono questo ciclo, e quindi può esserci un peggioramento, ma poi a un certo punto ecco che torna l’età dell’oro.

Qui in Dark Souls è difficile vedere questa cosa. A seconda dei vari finali, di come si vanno a interpretare, si vede in Dark Souls una degenerazione progressiva. Questa stagnazione si lega molto anche all’idea dell’acqua stagnante che Sekiro ha esplicitato forse più di tutti gli altri videogiochi FromSoftware. Quest’idea è molto presente in quella che è la tradizione giapponese. Quindi anche qui non stiamo dicendo nulla di nuovo sono grandi archetipi.

In Elden Ring, se non ci mettiamo esplorare questo mondo andiamo su quelli che sono i finali più semplici da raggiungere, più diretti. Soprattutto il finale diciamo standard, effettivamente fa ripartire un ciclo in cui non abbiamo risolto niente. Quindi sì, ci sarà il nuovo Lord, alcune cose ripartiranno, ma l’Interregno rimane un posto che cade un po’ a pezzi. Volendo, uno potrebbe anche dire che magari pure altri finali sono in un’ottica di un ciclo più ampio, che ha delle fasi più ampie e dilazionate.

C’è poi l’idea del campione eterno che è interessante. Se vogliamo, è un po’ anche una una possibilità interpretativa per coloro che hanno sempre avuto questa sorta di grande sogno: di mettere insieme tutti i mondi di FromSoftware in un unico universo narrativo.

Ci sono teorie anche abbastanza affascinanti, per quanto difficili da portare avanti. Però appunto a volte la fascinazione intellettuale ci porta comunque verso queste riflessioni. Quindi, ripeto, prendetele per quello che sono, cioè delle suggestioni. Però sono interessanti. Proviamo a pensarci. Abbiamo questa figura, questo campione eterno, che va a incarnarsi volta per volta in tutta una serie di eroi, di condottieri, in mondi differenti, in contesti differenti, quando c’è bisogno di lui.

E se ci pensate questa cosa effettivamente avviene non solo nei giochi FromSoftware… se vogliamo uscire fuori di metafora è il giocatore. Il giocatore ha esattamente questo ruolo: volta per volta va a incarnarsi, appunto, in quello che è l’avatar dello specifico videogioco. In questo caso del mondo di FromSoftware. Va a portare a termine un compito per cui viene appunto chiamato, evocato, nel momento in cui c’è una fase di passaggio, un ciclo da rinnovare o da spezzare.

Se vogliamo togliere questa cosa del giocatore e rimanere nell’ottica di quello che il mondo diegetico, narrativo, di questi giochi… beh anche l’elemento delle evocazioni ci porta comunque verso quest’ottica. Pensiamo al caso forse più facile, più immediato: Solaire in Dark Souls. Noi portiamo a termine tutta la sua quest, lui sopravvive fino in fondo ecc. Poi cosa succede? Si dice no che tornerà nel suo mondo e lì sarà lui a ravvivare la fiamma. Quindi vuol dire che abbiamo, anche in quel caso, tutta una serie di realtà alternative, parallele, che però in qualche modo riescono a intrecciarsi. Qui abbiamo dei guerrieri, dei condottieri, che possono in determinati contesti e situazioni passare da un regno a un altro, da un mondo all’altro, da un contesto all’altro.

Questo era per dirvi due parole sul libro di Moorcock, che come detto è un’ispirazione dichiarata citata da Miyazaki stesso.

«Everything that lives is designed to end». Une lecture écocritique de NieR : Automata

Piccola nota: il seguente articolo era stato originariamente scritto per il numero di un journal francese, verso la fine del 2021. Quel numero è stato poi completamente cancellato e non vedrà mai la luce.

Per non buttare via il contributo ho deciso di pubblicarlo qui, sul mio sito personale.

L’articolo è in francese, una lingua in cui solitamente non scrivo. Per cui è possibile che sia rimasta qualche imprecisione nel testo, che avrebbe dovuto essere poi corretta durante il processo di revisione. Processo che però, come detto, non c’è mai stato, visto l’annullamento generale della pubblicazione.

1. Ecocritique et jeux-vidéos

L’écocritique (de l’anglais ecocriticism, inventé par Rueckert[1]) peut être définie, essentiellement, « l’étude de la relation entre la littérature et l’environnement physique[2] », plus précisément finalisée à « proposer une lecture des œuvres littéraires qui puisse être véhicule d’une ‘éducation à voir’ les tensions écologiques du présent[3] ». C’est une forme d’analyse – et d’activisme – immédiatement liée au nature writing, c’est-à-dire ces textes littéraires qui s’occupent explicitement du rapport entre humains et environnement, mais d’ailleurs, comme Scott Slovic l’a mis en évidence il y a déjà des années[4], toute œuvre littéraire (et non seulement littéraire) peut être potentiellement soumise à l’analyse écocritique. L’Association for the Study of Literature and the Environment (ASLE) a effectivement étendu son champ d’investigation, arrivant à toucher un large éventail de productions médiatiques et culturelles[5]. Parmi celles-ci, il n’a pas manqué le médium jeu-vidéo, auquel l’on a dédié plusieurs lectures écocritiques, soit focalisées sur des titres individuels[6], soit de manière plus générale[7].

En prenant en compte ces précédents, le présent article propose une analyse écocritique du jeu-vidéo NieR : Automata (Platinum Games, 2017), lequel, tout en étant pas spécifiquement lié au sujet de l’environnement, apparait comme un cas emblématique pour la façon autoréflexive de présenter le conflit. NieR : Automata, c’est-à-dire, est une réflexion sur les modalités des représentations vidéoludiques[8] et offre donc la base pour la possibilité d’étendre l’étude « écologique » du thème. Ce terme est ici compris dans un sens plus large que son usage commun : il est défini, en reprenant plusieurs analyses écocritiques, comme un système de relations entre organismes et environnements.

NieR : Automata est peut-être la plus caractéristique des œuvres du japonais Yokō Tarō (connu aussi pour son choix de paraître en public toujours avec un masque), qui y a travaillé en tant que directeur et scénariste. Le jeu-vidéo est la suite du précèdent NieR (Square Enix, 2010), qui ne fut pas très bien accueilli par la critique et le public[9]. Le joueur se trouve dans un futur lointain où la planète est dominée par les « machines », des entités créées par des extraterrestres envahisseurs. Les humains survivants vivent sur la Lune, d’où ils envoient des androïdes de guerre sur la Terre. Les protagonistes du jeu sont trois androïdes, contrôlables en trois sessions différentes du jeu, qui à chaque fois ajoutent de nouveaux détails à l’histoire. Le joueur prend le contrôle, dans l’ordre, de 2B, 9S et A2[10]. Les renversements de perspective qui ont lieu avec les changements de personnage sont le point de départ de la première partie de la présente analyse, qui porte sur la synergie entre narration et gameplay, et qui engendre un message interprétable écocritiquement. Ensuite, dans la deuxième partie, nous nous attarderons sur quelques décors spécifiques du jeu-vidéo, pour voir comment ceux-ci contribuent à la création d’une certaine ambiance.

2. Renversements

Le premier tiers du jeu, où l’on prend le contrôle de 2B, suit un schéma de dévoilement traditionnel. 2B, presque toujours accompagnée par 9S, poursuit sa lutte contre les machines mais arrive à découvrir que certaines d’entre-elles ont développé une personnalité autonome et souhaitent être en paix avec les androïdes. Une machine nommée Pascal (plusieurs personnages de NieR : Automata portent le nom de penseurs et philosophes du passé) a fondé une communauté pacifiste dans la forêt, qui est plusieurs fois visitée par 2B et 9S. La solution future, l’espoir dans l’apocalypse, semble être tracée nettement, en termes à la fois relationnels et environnementales (c’est-à-dire les machines pacifistes vivant dans les arbres, qui s’opposent aux ruines d’une ville détruite par la guerre). Une perspective plutôt optimiste, surtout par rapport à d’autres apocalypses technologiques et écologiques de production japonaise[11], avec leurs liens plus ou moins directs avec l’exploitation militaire de l’énergie atomique[12]. NieR : Automatane se focalise pas sur les conséquences environnementales de l’apocalypse, mais les considérations de 2B et 9S à propos de l’espace environnant[13] permettent de se poser des questions sans utiliser une rhétorique écologiste explicite qui pourrait apparaître répulsive là où elle cherche à amener l’utilisateur à s’intéresser à ces thématiques[14].

D’une part, donc, on découvre petit à petit que les androïdes sont « comme » les humains, par leurs émotions et les désirs qu’ils éprouvent, en entendant ce rapport en termes de dérivation : il s’agit de copies qui ressemblent à l’original même au-delà de l’apparence physique. D’autre part, des machines comme Pascal aussi ressemblent à des êtres humains, par leur comportement, mais en sens différent : ce sont des entités inconnaissables, extraterrestres, qui ressemblent dans une certaine mesure à quelque chose de connu et qui pour cette raison sont à ceci comparés. Le dualisme hiérarchique et oppositif entre les deux parties, qui contient inévitablement à l’intérieur de lui l’idée d’un pôle supérieur et d’un pôle inférieur, n’est donc pas résolu[15]. La guerre aux androïdes continue à paraitre ‘juste’, parce que finalisée à rendre le monde à ses propriétaires légitimes, les humains (ici se révèle aussi la polarisation homme/nature). Les machines restent la représentation de l’altérité inconciliable et de l’ennemi, on se limite à reconnaitre à certaines – comme des exceptions – quelques similitudes avec les sentiments humains, ce qui permet de négocier, toujours en restant dans une perspective d’opposition.

2.1 La perspective des ennemis

La deuxième partie du jeu fait un pas de plus en renversant la perspective, en gardant toujours le même framework empathique. Le joueur revient sur les mêmes évènements qu’il a déjà vécu, de l’arrivée sur la planète à la défaite des machines Adam et Eve, mais cette fois en contrôlant l’androïde 9S. Celui-ci, à la différence de 2B, est capable d’intervenir sur les machines par des actions d’hacking, pour les contrôler ou les détruire. Cette capacité propre à lui n’est pas une simple variation du gameplay, mais elle lui offre aussi l’occasion de saisir les pensées et les sensations des ennemis. Ce ne sont donc plus seulement les machines pacifistes de Pascal qui ont des sentiments humains : dans une certaine mesure, toutes les machines, même quand elles ne sont pas capables de l’exprimer de façon cohérente, éprouvent de la joie et de la douleur, des peurs et des désirs. Même avant de prendre contrôle de 9S, il y a une courte partie du jeu, souvent négligée, où l’on joue pendant quelques minutes le rôle d’une machine :

Avant que le joueur ne contrôle 9S, il doit compléter une mission avec Friedrich, une petite machine qui est en train de récupérer de l’huile pour réanimer son « frère », qui est clairement irréparable. Bien que jusqu’ici le joueur ait passé son temps à tuer des machines comme Friedrich, le passage soudain du rapide et agile 2B au lent et chancelant robot permet une sympathie pour son impuissance, qui devient ensuite une frustration empathique quand, surchargé par son godet, le joueur trébuche sur un des nombreux tuyaux cachés qui parsèment le terrain[16].

Prendre le point de vue de l’« ennemi » n’est pas une nouveauté de NieR : Automata, mais l’interactivité caractéristique du medium vidéoludique[17] offre un élément en plus par rapport à d’autres formes d’expression. Nous n’observons pas simplement les actions d’un autre personnage, mais nous sommes en train d’opérer activement pour l’achèvement de ces actions. C’est le joueur même, dans le rôle de 2B, qui a détruit les centaines de machines, et il en détruira autant quand il contrôlera 9S, il n’est pas simplement un spectateur qui juge l’agir d’autrui. Même en dehors des moments de contrôle direct des « ennemis », l’interaction vidéoludique menée avec son propre avatar avec les NPC (non-player characters) peut facilement amener à une forme d’empathie avec eux[18]. C’est pour cela que la mort de NPC avec lesquels on a passé beaucoup de temps peut susciter des réactions émotionnelles très fortes[19] et, sous certaines conditions, il est possible de développer des liens empathiques forts avec ses adversaires, en se trouvant dans le paradoxe de devoir les tuer pour avancer dans le jeu sans en vouloir la mort (comme dans Shadow of the Colossus, Team Ico, 2005). L’intensité et la variété interne du sentiment émotionnel potentiellement généré par un jeu-vidéo[20] se lient très bien avec l’approche écocritique aux jeu-vidéos, parce que la cocréation narrative du joueur – qui est appelé à intervenir activement pour faire avancer l’histoire – et le contrôle d’avatar très différents de ce qu’on est (au point de contrôler des créatures non humaines) produisent des réponses émotionnelles qui peuvent être dirigées vers des finalités éducatives sur des thématiques déterminées[21].

NieR : Automata utilise par ailleurs des stratégies très spécifiques pour canaliser les émotions possibles du joueur, aussi en recourant à la mémoire, et il fait cela surtout grâce à la musique. La bande son du jeu-vidéo est composée de variations multiples sur les mêmes morceaux musicaux, qui non seulement définissent l’évolution du mood d’un certain environnement, mais tracent aussi des liens implicites entre lieux et personnages séparés, associés par un même morceau qui est reproposé en une forme différente[22]. La tension entre similitude et différence est accrue davantage dans les morceaux chantés. Ces derniers utilisent une langue inventée, crée par le mélange de structures de plusieurs langues réelles. De cette façon, les parlants de différentes langues croient reconnaitre quelques paroles, mais sans arriver à comprendre le sens des phrases. Ce sont des chansons qui apparaissent universellement familiales et universellement étrangères en même temps, ce qui renforce l’idée de liens sous-jacents communs à des cultures et des entités différentes, comme androïdes et machines.

2.2 Le conflit éternel et le sacrifice

La troisième et dernière part de NieR : Automata maintient la thématique de ce caractère commun de fond, du lien qui tient ensemble des êtres profondément différents, mais elle en modifie les bases. Jusqu’ici le jeu a proposé plus ou moins directement l’idée d’une possible paix future, fondée sur le comportement de machines pacifiques comme Pascal. Ce qui émerge maintenant, en revanche, c’est que toute créature a en commun le besoin de conflit. En réalité la totalité du jeu parle de conflit, mais jusqu’à présent nous avions encore l’idée qu’une porte de sortie était possible. Dans la troisième partie, au contraire, les dévoilements progressifs montrent une vérité différente. Les extraterrestres qui ont créé les machines ont disparu depuis longtemps, et l’humanité encore plus tôt : tout ce qui reste sur la lune, c’est un échantillon de génome humain, placé dans une structure qui reçoit et envoie de faux signaux. De plus, les machines furent créées avec la seule mission de vaincre l’ennemi, ce qui en même temps implique la présence continue d’un ennemi qui ne peut jamais être battu. Avec le temps, elles ont évolué en assimilant beaucoup d’informations sur les humains. Comme le synthétise une des notes de fin de jeu qui est écrite par un androïde : « Alors ! En résumé : depuis des centaines d’années, on a combattu contre un réseau de machines qui a en son centre le fantôme de l’humanité. On a vécu dans un p**** de monde où l’on mène une guerre qu’on  ne PEUT PAS PERDRE, tout ça à cause d’un Conseil de l’Humanité qui n’existe même plus[23] ». Même si l’on abandonne cette logique de conflit global – potentiellement éternel – pour s’attarder sur les vicissitudes des personnages, le résultat est le même. Le joueur, qui dans les précédents deux tiers du jeu avait expérimenté des points de vue différents et des potentialités non encore exprimées, voit maintenant tout ce monde s’effondrer sans qu’aucune de ses actions ne puisse avoir d’impact[24]. La station spatiale des androïdes est détruite, 2B découvre qu’elle a été infectée par un virus et demande à A2 de la tuer, suscitant en 9S une irrésistible soif de vengeance. La machine Pascal abandonne son pacifisme pour défendre les ‘enfants’ du village, en vain, parce que pendant la bataille ceux-ci se suicident en masse, terrorisés (ils avaient appris les sentiments humains comme la peur grâce à Pascal lui-même). Les histoires de plusieurs autres personnages secondaires se fondent sur le conflit ou sur un désir qui se révèle insuffisant pour donner du sens à une vie et qui, une fois réalisé, les pousse à se suicider.

Les comportements des androïdes et de machines sont les mêmes que ceux des êtres humains, du moment que les deux formes de vie synthétique sont directement ou indirectement influencées par les mémoires de l’humanité. Puisque tout ce qui font est fondé sur le conflit, et qu’ils suivent le comportement des humains, il parait possible d’affirmer que le conflit représente le noyau de l’humanité. En regardant bien, il n’est pas nécessaire d’attendre le final de NieR : Automata pour comprendre ce concept, qui est déjà rendu explicite au moment de la bataille entre la machine Adam et 2B. À ce moment-là, Adam affirme avoir compris la vérité après de longues réflexions : « Le noyau de l’humanité… est le conflit. Ils se battent. Ils tuent. Ceci est l’humanité dans sa forme la plus pure[25] ». À cette occasion 2B répond, indignée, que son adversaire ne sait rien à propos des humains, mais les évènements semblent donner raison à Adam.

NieR : Automata met donc en avant le comportement des humains, bien qu’ils n’apparaissent jamais dans le jeu. L’humanité apparait ici dans la forme de l’absence. Tout le monde dans le jeu parle de l’humanité, même en son absence. Les décors du jeu sont ‘infestés’ par cette mémoire du passé, ils en portent les traces, et d’une façon non positive. L’héritage de l’humanité est fait de débris et ruines, pollution et animaux mutants. La guerre qui suit, interminable, entre androïdes et machines n’a fait que produire des déchets ultérieures, à commencer par les corps des combattants, des coques vides abandonnées sur le champ de bataille. La conflictualité des humains s’est donc dirigée surtout vers la nature, « colonisée » en tant que pôle faible[26].NieR : Automata ne présente pas de nostalgie naturelle, pas de désir idéalisé de retour à une forme de pureté perdue, ce qui caractérise beaucoup de narrations green contemporaines. Yokō Tarō a affirmé à plusieurs occasions ne pas vouloir imposer aux joueurs une certaine vision, ou leur donner une seule réponse ; l’évolution continue des jeux-vidéos qu’il a produit rend encore plus grand le nombre d’interprétations possibles[27].

De cette manière, la question écologique peut certainement être laissée, à propos de NieR : Automata, à la libre interprétation de l’utilisateur, et sera facilement dirigée vers le déjà cité système relationnel entre les différent organismes, plutôt que dans les rapports avec l’environnement. Plusieurs jeux-vidéo plus ou moins contemporains de NieR : Automata proposent des paraboles narratives green beaucoup plus monolithiques, comme Horizon : Zero Dawn (Guerrilla Games, 2017), qui présente un retour à la nature après la destruction et la renaissance du monde, avec la création d’un futur qui en réalité est lié nostalgiquement à une sorte d’âge d’or vert, à un passé vague et indéfini. Les considérations de 2B et 9S, les paysages de NieR : Automata, ses narrations du passé, offrent au contraire des éléments de réflexion, même contradictoires, qui poussent le joueur à s’interroger.

Même le propos d’Adam, sur le conflit comme élément fondamental de l’humanité, qui semble être devenu le pilier de la troisième partie du jeu, voit la possibilité d’être encore renversé dans la fin D[28] et surtout la fin E, dans laquelle toutes les données de jeu sont effacées. Ce même mécanisme avait été utilisé dans une des fins de NieR, ce qui avait fait saluer le génie de Yokō Tarō par une partie des joueurs, pendant que d’autres le tâchaient de sadique et mégalomane[29].

La question des sauvegardes dans NieR : Automata prend une importance particulière même avant la fin, parce qu’elle est diégétisée. Car, quand on fait une sauvegarde, les androïdes effectuent un backup des données mémorisées, qui peuvent toujours être transférées dans un nouveau corps si le précèdent est détruit. Le game over fait partie de la diégèse, l’échec a vraiment causé la destruction du corps physique de l’androïde utilisé, mais un corps de remplacement est toujours prêt (au moins jusqu’à quand un facteur externe ne l’empêche, comme le virus qui infecte 2B). En outre, ce jeu présente une logique de « RPGfication » [30], c’est-à-dire qu’il contient des processus qui poussent le joueur au « complétisme », en investissant dans le jeu beaucoup plus de temps que ce qui est nécessaire (et qui est déjà exigeant) pour terminer l’histoire principale. Par exemple, il faut pas mal de temps et de ressources pour obtenir et améliorer toutes les armes disponibles, il faut faire monter de niveau son propre personnage plusieurs fois pour arriver à battre des boss cachés.

En terminant les fins C ou D, en répondant d’une certaine manière à une question, on lance une phase du jeu où il faut tirer sur les noms du générique de fin, en contrôlant une sorte de curseur triangulaire. C’est une modalité qui ressemble au phases de hacking complétées avec 9S, mais beaucoup plus difficile, parce que les ‘ennemis’ contrattaquent tout le temps. Très vite l’affrontement devient une sorte de bullet hell, très dur à terminer. Mais, au moment où le jeu demande de reconnaitre que le monde n’a aucun sens, voilà qu’apparaissent des messages d’espoir et de soutien de la part d’autres joueurs, et qu’il est possible de recevoir leur aide. On revient au bullet hell, mais cette fois on est rejoint par d’autres ‘curseurs’ : c’est ce qu’il reste des données de jeu d’autres personnes. Cette puissance de feu accrue rend plus simple la bataille contre les « auteurs » du jeu, pendant que les paroles de la chanson Weight of the World soulignent la nécessité de continuer même ce qui semble être un effort insensé.

À la fin de l’affrontement on assiste aux réflexions des Pods, les petits robots de soutien qui ont accompagné les trois androïdes au cours du long voyage. Ici, la phrase prononcée au début du jeu par 2B (« Tout ce qui vit est conçu pour finir. Nous sommes perpétuellement piégés dans une spirale de vie et de mort sans fin. Est-ce une malédiction ? Ou quelque sorte de punition ?[31] ») est reprise avec des petites modifications. C’est peut-être le moment du jeu où apparait le plus clairement l’influence de Nietzsche[32]. Les Pods réfléchissent à une situation d’éternel retour : même en recommençant à zéro, ailleurs, il est possible qu’on arrive à nouveau aux mêmes conclusions. Un éternel retour qui refuse le devenir de l’histoire et auquel on ne peut pas échapper narrativement : recommencer NieR : Automata mènera à la même fin de la dernière fois. Ce qui peut changer – c’est les Pods qui laissent ouverte la possibilité d’un changement – c’est l’approche au jeu et les considérations qu’il produit[33].

Après cette dernière vidéo l’on demande au joueur s’il souhaite effacer toutes les données de la session pour aider « quelqu’un quelque part dans le monde », de la même manière qu’il l’a été pendant le bullet hell. Celui qui recevra de l’aide, le jeu nous dit, peut être un parfait inconnu, une personne détestable, quelqu’un qui pourrait ne pas être reconnaissant. Un renversement, si l’on veut, de l’histoire Le mandarin de Eça de Queirós[34], où il est possible de tuer un mandarin chinois inconnu et d’en obtenir les richesses tout simplement en sonnant une cloche.

Cette fin, qui a suscité d’intenses et différentes réactions parmi les joueurs[35], rouvre la question sur le nihilisme réel de NieR : Automata[36]. Comme nous l’avons déjà dit, le jeu ne donne pas de réponse univoque, notamment parce que ce sont les joueurs qui font le dernier choix : ils peuvent garder leurs sauvegardes ou ‘sacrifier’ de nombreuses heures de jeu pour aider un inconnu. Dans le deuxième cas, on peut affirmer qu’il y a un avancement empathique. Précédemment, on a parlé des manières avec lesquelles NieR : Automata contribue à créer de l’empathie envers les personnages, avec qui on a été en contact pendant beaucoup de temps ; maintenant on demande à avoir de l’empathie pour des inconnus. Tout cela, d’ailleurs, ne changera concrètement rien : l’aide reçue par un joueur amènera l’inconnu au même résultat que tous ceux qui ont terminé le jeu avant lui. C’est un « don unilatéral aux inconnus[37] », sûrement moins coûteux que d’autres sur le plan matériel, mais qui a en lui un certain élément temporel : on donne donc son propre temps passé, les dizaines d’heures consacrées au jeu. C’est un choix écologique, dans le sens relationnel du terme qui a été indiqué au début, qui peut offrir, sans l’imposer, un appel à l’action, une nouvelle perspective. Ceci est le rôle que l’écocritique reconnait depuis toujours à la narration, comme soutien de la science : « la narration est essentielle à la pratique de la prédiction et elle est la voix pour des appels à l’action. Elle est capable de porter le poids de prévoir les résultats et d’inculquer des valeurs à un vaste public[38] ». De plus, la possibilité d’un choix (non seulement concernant l’interprétation) dans une narration peut accroitre la conscience des questions environnementales.

3. Trois paysages

Après avoir reconstruit le parcours empathique long et ramifié de NieR : Automata, on va par la suite laisser quelques suggestions sur quelques décors spécifiques du jeu (le désert, le village de Pascal et le royaume de la forêt), pour montrer comme le décor de ce produit ait contribué à véhiculer spécifiquement le cadre général décrit jusqu’ici.

3.1 Le désert

Le désert est un des premiers environnements que le joueur rejoint. Il s’agit d’un environnement hétérogène, composé au début d’un espace rocheux (qui confine avec les City Ruins visitées précédemment), puis d’une étendue de sable entourée d’hautes montagnes (appelée Desert Zone) et d’un complexe résidentiel abandonné (Desert Housing). C’est dans le désert que les androïdes (et le joueur avec eux) commencent pour la première fois à se poser la question de la capacité des machines d’éprouver des sentiments. Les ennemis qui sont présents, en effet, copient maladroitement les habitudes des êtres humains et semblent effrayés par l’irruption des androïdes dans leur repaire. C’est encore dans le désert que Adam et Eve naissent, deux personnages très importants dans l’économie complexive du jeu.

Le désert est depuis toujours le lieu de l’affrontement, soit dans sa traversée, soit dans les permanences initiatiques qui se passent là-bas ; c’est le lieu de la lutte contre soi-même, ainsi que de l’attente, au moment où on se pose en dehors du monde, dans un lieu où le temps parait s’être arrêté. Dans NieR : Automata il s’agit du lieu de l’épreuve au sens physique (le boss le plus puissant du jeu se trouve dans cette zone), au sens de l’espace (il est difficile de s’orienter dans les tempêtes de sable pour rejoindre l’oasis cachée) et surtout au sens de la vie intérieure : pour la première fois, le doute s’instille dans les croyances des androïdes sur leurs ennemis. Le passage dans le désert se révèle donc un moment significatif, et le lieu même, pour ses caractéristiques, contribue à renforcer implicitement un des éléments de fond du jeu, celui du temps bloqué, enroulé, qui revient tout le temps sur soi-même. Mais, en même temps, le désert contient la promesse d’un changement futur, un tournant (la paix avec les machines, leur évolution par le biais de Adam et Eve, etc.).

Le désert, lieu de l’attente et de la patience, de l’immutabilité indiscutable, essaye de s’ouvrir au devenir. C’est un espoir qui sera plusieurs fois modifié au cours de l’histoire, au point qu’il semble parfois s’évanouir, mais il sera encore présent à la fin, dans le dialogue entre les deux Pods qui précède l’effacement des données de jeu.

3.2 Le village de Pascal

Après la rencontre avec les machines du désert et ensuite avec celles de l’Amusement Park (pacifiques, mais plongées dans une sorte de fête perpétuelle, où il est difficile de comprendre s’ils sont en train de s’amuser ou seulement de mimer l’acte du divertissement), on arrive à rencontrer la communauté de Pascal, qu’on a déjà mentionné. Leur village se développe sur un système de passerelles autour du tronc d’un arbre immense. Les maisons sont minuscules, plus ou moins de la taille exacte de leurs habitants, mais d’ailleurs les machines n’ont pas vraiment besoin de ces édifices minuscules qui sont plutôt utilisés pour imiter les humains.

Le village ressemble visuellement à certaines représentations du lieu où habitent Peter Pan et les Garçons Perdus. À bien des égards, les différences sont plus nombreuses des similitudes, mais il y a un point qui mérite d’être souligné pour le rapport avec le lieu. Peter Pan apparait comme un médiateur entre nature et culture, grâce aussi à son statut hybride (il n’est pas complétement humain, mais il n’est pas non plus quelqu’un de non-humain), qui se révèle très déficitaire dans ce rôle. De même manière, pour une bonne partie du jeu, Pascal apparait comme un personnage de médiation, et son projet semble la voie meilleure pour arriver à la fin du conflit. Il est un médiateur double, entre technologie et nature et entre machines et androïdes. Mais finalement, lui aussi s’avère incapable de se proposer pour ce rôle, quand son projet échoue et la douleur l’anéantit e l’amène à s’échapper à la réalité.

3.3 Le royaume de la forêt

Le Forest Kingdom est une zone de bois placée entre les ruines d’un centre commercial et d’un château. C’est le territoire d’un groupe de machines qui se comportent comme des anciens soldats et se battent pour protéger le « roi de la forêt ».

Grace Gerrish[39] rappelle une des quêtes secondaires qui ont lieu ici comme exemple emblématique des modalités que NieR : Automata met en œuvre pour renverse les attentes du joueur.

La forêt est depuis toujours une des étapes fondamentales de nombreux voyages fantastiques et initiatiques, le long d’un voyage de découverte où l’on récupère sa propre identité perdue que la routine avait endormi.

Une machine à l’orée de la forêt propose une mission – appelée « Treasure Hunt at the Castle » dans le menu – aux deux androïdes, en leur expliquant comment trouver un trésor caché au centre du château. Il s’agit d’un type de quête secondaire très fréquent dans les jeux de rôle : on explore une zone en plus, au cours d’un détour du parcours principal, et en reçoit un trésor de quelque sorte. Dans ce cas aussi le joueur – fort de ses expériences vidéoludiques et de la valeur que le lieu détient dans les aventures de recherche – s’attend probablement à recevoir une nouvelle arme ou quelque chose du genre. Après avoir (re)parcouru la forêt et le château et avoir atteint la zone non explorée, les androïdes trouvent le personnage classique qui garde le trésor, une machine-cavalier très puissante. Après avoir battu l’ennemi, ils découvrent que le trésor qui été gardé par le cavalier est seulement le tombeau de l’ancien roi de la forêt, Ernst. Comme on le découvre par une lettre obtenue à ce moment-là, il s’agissait d’une machine pacifique qui avait construit un royaume formidable au centre de la forêt, qui distribuait ses composants électroniques aux sujets qui en avaient besoin, avec beaucoup de générosité, jusqu’à quand il avait cessé de fonctionner. Donc, la seule récompense de la quête secondaire est la certitude d’avoir tué sans une bonne raison les gardiens fidèles d’un roi juste et bon.

Cette absence de sens d’ailleurs s’étend au destin du nouveau roi de la forêt, Immanuel, une machine ‘nouveau-né’ qui a reçu les composants de Ernst, et de laquelle on attend qui grandisse pour avoir un nouveau roi juste. Mais, en tant que machine, Immanuel est destiné à rester un nourrisson pour toujours, ne pouvant pas grandir réellement. La détermination inébranlable avec laquelle les soldats du royaume son prêts à se sacrifier pour protéger Immanuel ressemble à la lutte que les androïdes poursuivent dans le nom des humains. Ceux-ci se battent pour quelque chose qui n’existe plus, tandis que les machines de la forêt luttent pour un espoir sans futur (et, à un moment donné, A2 tue Immanuel, vidant complètement de sens la lutte des soldats).

C’est à ce point là peut être que réside, comme on l’a dit, une des interprétations plus pertinentes du point de vue écocritique du message de NieR : Automata. Sa lutte et son parcours apparaissent totalement privés de sens, sans perspective future, mais même dans une situation si radicalement nihiliste il est possible de trouver une raison pour poursuivre, en gardant une ouverture empathique vers les autres.


[1] William Rueckert, « Literature and Ecology: An Experiment in Ecocriticism », Iowa Review, n° 9, 1, 1978, p. 71-86.

[2] « [T]he study of the relationship between literature and the physical environment », Cheryll Glotfelty, « Introduction: Literary Studies in an Age of Environmental Crisis », p. XV-XXXVII, in Cheryll Glotfelty, Harold Fromm (dir.), The Ecocriticism Reader. Landmarks in Literary Ecology, Athens (Georgia) – London, University of Georgia Press, 1996, p. XVII

[3] «proporre una lettura delle opere letterarie che possa essere il veicolo di una ‘educazione a vedere’ le tensioni ecologiche del presente». Serenella Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Milano: Edizioni Ambiente, 2006, p. 16. Dans le temps on a formulé des définitions plus précises, mais en général l’écocritique se présente comme un champ d’investigation assez libre et en cours de réalisation, défini par les pratiques des chercheurs : Scott Slovic, « Ecocriticism: Containing Multitudes, Practising Doctrine », p. 160-162, in Laurence Coupe (dir.), The Green Studies Reader. From Romanticism to Ecocriticism, New York – London, Routledge, 2000, p. 161).

[4] Scott Slovic, « Ecocriticism: Containing Multitudes, Practising Doctrine », op. cit.

[5] Greg Garrard, Ecocriticism, New York – London, Routledge, 2004, p. 4.

[6] Par exemple Alenda Chang, « Back to the Virtual Farm: Gleaning the Agriculture-Management Game », Interdisciplinary Studies in Literature and Environment, n° 19, 2, 2012, p. 237-252 ; Alexander Lehner, « Videogames as Cultural Ecology: Flower and Shadow of the Colossus », Ecozon@, n° 8, 2, 2017, p. 56-71

[7] Par exemple Hans-Joachim Backe, « Within the Mainstream: An Ecocritical Framework for Digital Game History », Ecozon@, n° 8, 2, 2017, pp. 39-55 e Victor Navarro-Remesal, « Pixelated nature: ecocriticism, animals, moral consideration, and degrowth in videogames », Logos: comunicação e universidade, n° 26, 2, 2019, p. 13-26.

[8] Milan Jaćević, « This. Cannot. Continue. – Ludoethical Tension in NieR : Automata », The Philosophy of Computer Games Conference, Kraków 2017, 2017, p. 1-15.

[9] Voir Nicolas Turcev, The Strange Works of Taro Yoko: From Drakengard to NieR : Automata, Toulouse, Third Editions, 2018.

[10] Trois noms significatifs parce que la manière de les prononcer rappelle, respectivement, le « to be » shakespearien, le « non esse » latin et l’expression « et tu » que César aurait prononcé en s’adressant à Brutus et qui est utilisé par Shakespeare dans la tragédie du meme nom (acte III, scène I). Ce sont trois renvois de leur personnalité (A2, par exemple, est une traitresse, qui s’est retournée contre ses commandants).

[11] Susan Napier, Anime from Akira to Princess Mononoke. Experiencing Contemporary Japanese Animation, New York, Palgrave, 2000, pp. 193-218.

[12] Marco Pellitteri “Funghi nella foresta animata. Le esplosioni atomiche nell’animazione giapponese”, Manga academica, n° 10, 2017, pp. 163-190.

[13] Où la nature a réussi à reconquérir que partiellement les divers loca horrida du contemporain, placés non plus dans des lieux inaccessibles, mais produit par l’action m ê me des humains : Hannes Bergthaller, « Response: Hailed by the Genius of Ruins—Antiquity, the Anthropocene, and the Environmental Humanities »,  p. 61-68, in Christopher Schliephake (dir.), Ecocriticism, Ecology, and the Cultures of Antiquity, Lanham, Lexington Books, 2016, p. 66.

[14] Greg Garrard. Ecocriticism, op. cit., p. 104-107 et Greg Garrard, Teaching Ecocriticism and Green Cultural Studies, New York, Palgrave Macmillan, 2012.

[15] Serenella Iovino, Ecologia letteraria, op. cit., pp. 75-77.

[16] “Before the player controls 9S, they are given over to Friedrich, a small machine who is retrieving oil in order to revive his clearly irreparable “brother.” Despite the fact that the player has been killing machines like Friedrich until this point, the switch from the agile, lightning-fast 2B to the slow, shuffling robot fosters a sympathy for his helplessness, which deepens into an empathetic frustration when, burdened by the bucket, the player inevitably trips over one of the seemingly inconspicuous pipes that litter the ground”. Grace Gerrish, « NieR (De)Automata: Defamiliarization and the Poetic Revolution of NieR : Automata », Proceedings of Nordic DiGRA 2018, 2018, p. 1-10 (3).

[17] Lori Landay, « Interactivity », p. 173-184, in Mark J.P. Wolf, Bernard Perron (dir.), The Routledge Companion to Video Game Studies, New York, Routledge, 2014.

[18] Une empathie, par ailleurs, vers des ennemis qui sont considérés comme des objets (encore plus que les protagonistes, dont les corps sont des coques remplaçables, tant qu’ils arrivent à préserver la mémoire des boites noires), ce qui inscrit ce sentiment dans une perspective plus large. On sympathise non seulement pour ce qui n’est pas humain, mais aussi vers la matérialité même (Serpil Oppermann, “From Ecological Postmodernism to Material Ecocriticism: Creative Materiality and Narrative Agency”, p. 21-36, in Serenella Iovino, Serpil Oppermann (dir.), Material Ecocriticism, Bloomington, Indiana University Press, 2014), vers des entités qui n’apparaissent pas vraiment comme ‘vivantes’ : des machines aux poissons mécaniques qui nagent dans les lacs de pétrole, jusqu’à la planète. L’empathie s’étend donc au-delà des règnes animal et végétal.

[19] Katherine Isbister, How Games Move Us. Emotion by Design, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2017, p. 22-23.

[20] Eugenie Shinkle, « Corporealis Ergo Sum: Affective Response in Digital Games », pp. 21-35, in Nate Garrelts (dir.), Digital Gameplay: Essays on the Nexus of Game and Gamer, Jefferson, McFarland, 2005; Steve Swink, Game Feel. A Game Designer’s Guide to Virtual Sensation, New York, Routledge, 2009.

[21] Alenda Chang, John Parham, « Green Computer and Video Games: An Introduction », Ecozon@, n° 8, 2, 2017, p. 1-17.

[22] Grace Gerrish, « NieR (De)Automata… », op. cit., p. 5.

[23] « So then! To sum up: For hundreds of years, we’ve been fighting a network of machines with the ghost of humanity at its core. We’ve been living in a stupid *****ing world where we fight an endless war that we COULDN’T POSSIBLY LOSE, all for the sake of some Council of Humanity on the moon that doesn’t even exist ». Machine Research Report. Morceau de texte dans les information archives de NieR : Automata, 2017.

[24] Milan Jaćević, « This. Cannot. Continue…», op. cit., p. 4.

[25] « The core of humanity… is conflict. They fight. Steal. Kill. THIS is humanity in its purest form ».

[26] Serenella Iovino, Ecologia letteraria, op. cit., p. 77.

[27] Archipel, « Yoko Taro, Game Creator (NieR, Drakengard series) – toco toco », YouTube, 01/04/2017, https://www.youtube.com/watch?v=L3wScHE28K8.

[28] La fin D mérite un appel de note. 9S, au moment de mourir après le duel avec A2, découvre que la tour gigantesque qui a été consruite par les machines est une arche qui sert à transporter dans l’espace lointain la mémoire des machines (et, indirectement, des humains) qui ont participé à la guerre. Adam et Eve, dont les mémoires résides dans la tour, demande à la conscience de 9S, si il veut les rejoindre, surmontant ainsi leur rivalité.

[29] Nicolas Turcev, The Strange Works of Taro Yoko, op. cit.

[30] Rob Gallagher, Videogames, Identity and Digital Subjectivity, New York – London, Routledge, 2017, p. 179.

[31] “Everything that lives is designed to end. We are perpetually trapped in a never-ending spiral of life and death. Is this a curse? Or some kind of punishment?”.

[32] Milan Jaćević, « This. Cannot. Continue…», op. cit.

[33] Grace Gerrish, « NieR (De)Automata… », op. cit., p. 7.

[34] José Maria Eça de Queirós, O Mandarim, Lisboa: Imprensa Nacional-Casa da Moeda, 1880.

[35] « Some felt a sense of loss and regret after deleting their saves; others felt liberated from the compulsion to ‘100%’ the game and collect everything; others still were moved to reflect on the game’s ‘message’, and on the terms on which we remember games »: Rob Gallagher, « Memory and Meaning in Analogue: A Hate Story and NieR : Automata », pp. 1-3, DiGRA ’18 – Abstract Proceedings of the 2018 DiGRA International Conference: The Game is the Message, 2018, p. 2.

[36] Grace Gerrish, « NieR (De)Automata… », op. cit.

[37] Gianni Gasparini, Sociologia degli interstizi. Viaggio, attesa, silenzio, sorpresa, dono, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 157.

[38] « [N]arrative is essential to the practice of prediction and is the voice of calls to action. It is capable of bearing the weight of predicting outcomes and instilling values to an inclusive audience ». Heidi Scott, Chaos and Cosmos: Literary Roots of Modern Ecology in the British Nineteenth Century, University Park: Penn State University Press, 2014, p. 86.

[39] Grace Gerrish, « NieR (De)Automata… », op. cit.,

The Wreck: i problemi nel comunicare un videogioco

Ho letto il post su RedditWhy the hell do we even bother making indie games?” di Florent Maurin (The Pixel Hunt), che ha di recente pubblicato The Wreck.

Il videogioco non è andato molto bene, in termini di vendite, per usare un eufemismo. Il post non parla solo di quello, e c’è una parte che ho trovato decisamente propositiva, sul perché andare a sviluppare videogiochi indie, nonostante tutto.

Nondimeno, mi sono trovato a riflettere su tutta una serie di punti, che ho voluto discutere qui sotto, dopo aver passato diverse ore ad analizzare tutto il materiale legato alla comunicazione di The Wreck, alle sue recensioni ecc.

Un paio di cose prima di cominciare: ci sono tutta una serie di dati interni che non conosco. Bisognerebbe, per esempio, capire quanto è costato il gioco, sulla base di quante persone ci hanno lavorato per quanto tempo. Mi sono fatto un’idea indicativa, ma evito di fare troppe supposizioni in merito.

The Wreck

Cosa mi sta raccontando The Wreck?

Parto con quello che è il problema di fondo. Tutti gli altri punti sono importanti, sì, ma alcuni sono più che altro dei corollari di quanto detto qui.

Al videogioco manca un tema riconoscibile.

Ci sono tanti temi che vengono presentati, andando sulla pagina di Steam, sulle recensioni ecc.

Ma quale dovrebbe essere il tema di fondo?

Ora, voglio che il mio discorso sia ben chiaro. Una storia può presentare un gran numero di tematiche, ma in generale – quando la storia funziona – ce n’è una al centro di tutto. Ed è quella che si lega all’arco di trasformazione del personaggio, per usare la terminologia di Dara Marks.

A prescindere dai termini, il personaggio si trova immerso in un conflitto, legato a un tema forte e a un qualcosa che lui o lei devono cambiare. Un “difetto fatale” che gli impedisce di andare nella giusta direzione, di prendere la direzione corretta, finché non si scioglie questo nodo interiore.

Sulla pagina di The Wreck leggo che il gioco è «Una visual novel 3D dai contenuti maturi che parla di sorellanza, maternità, lutto e sopravvivenza».

“Sorellanza” e “maternità” possono ancora ancora essere accorpabili, così come si può trovare un vago legame tra “lutto” e “sopravvivenza”, per quanto sia già necessario un salto logico. Ma, al fondo, di cosa parla questa storia? Quale tra questi è il punto centrale, il perno della vicenda? Se poi si guarda il post di Florent su Reddit, l’ampiezza cresce ulteriormente: « It deals with themes that have been haunting me since I became a dad, such as family relationships, love, loss, grief, and the ability to face even the worst things that can happen in our lives». E possiamo anche aggiungerci perlomeno l’autolesionismo e le relazioni tossiche.

The Wreck è difficile da riassumere, da “impacchettare” in modo rapido e funzionale in una presentazione che possa raggiungere le persone in target.

Riporto la descrizione presente su Steam: «All’età di 36 anni, la vita di Junon è allo sfascio: la sua carriera ristagna, è emotivamente apatica e la sua vita privata sta andando a rotoli. Il tutto raggiunge il culmine quando riceve una telefonata dal pronto soccorso e trova sua madre, con la quale non è più in contatto, in condizioni critiche. È il giorno più importante della vita di Junon e, a meno che qualcosa non cambi, potrebbe anche essere l’ultimo».

È vaga, troppo vaga, e apre la strada a un numero di sviluppi troppo differenti e difficili da comprendere a fondo. Forse è scritta male, ma temo che – per quanto detto in precedenza – sia proprio difficile riuscire a condensarla in modo efficace.

John Truby, nel suo Anatomia di una storia, parla di quanto sia importante la premessa drammaturgica, ovvero «la combinazione più semplice di trama e personaggio, [che] consiste in genere in un evento che dà l’avvio all’azione seguito da una descrizione sommaria del protagonista e dell’esito della storia» (Dino Audino, 2009, p. 16). Alcune storie non hanno chissà quale scavo psicologico o profondità, ma funzionano in maniera ottimale perché si riesce a mostrare in modo chiaro, immediato e diretto una premessa drammaturgica interessante.

Il fruitore – va anche detto – non andrà necessariamente a leggere la premessa drammaturgica in sé, ma questa sarà comunque alla base del modo con cui quella storia gli sarà comunicata.

Ma nel caso di The Wreck faccio fatica a trovare una premessa drammaturgica chiara ed efficace da esprimere in poche righe. Non saprei su cosa puntare. Sul fatto che la protagonista sia una sceneggiatrice e che ci sia un forte focus sulla scrittura? Sul lutto? Sulla vicinanza e la conflittualità intergenerazionale? Altro ancora?

Anche immaginando di poter trovare “il sugo” della storia, per usare un’espressione manzoniana, e già su questo ho qualche dubbio, di certo tutto ciò non è emerso nella comunicazione del videogioco. Non in modo efficace, perlomeno.

Sembra di essere davanti a un nuovo Where the Water Tastes Like Wine: un videogioco con alcune idee estremamente interessanti, ma anche molto difficili da comunicare in modo funzionale, e per di più affossato da tutta una serie di problematiche comunicative e ingenuità varie. Alcune di queste sono indicate dal creatore stesso nel postmortem del videogioco, ma non sono le sole. Probabilmente dedicherò un contributo alla vicenda di questo videogioco, in futuro, in cui approfondire tutta un’altra serie di questioni.

Where the Water Tastes Like Wine aveva venduto circa 2000 copie nel suo primo mese. Proprio come The Wreck nello stesso periodo di tempo, stando alla dichiarazione di Florent. Where the Water Tastes Like Wine ha poi continuato a vendere nel tempo e anche il postmortem generò un po’ di attenzione sul videogioco, ma siamo comunque sempre rimasti ben lontani da un buon risultato. Anche The Wreck, molto probabilmente, avrà la sua coda lunga di vendite e qualche impennata, magari dettata anche dall’onesto post di Florent su Reddit, ma – salvo miracoli – nulla di più.

Ed è un peccato, perché The Wreck ha diverse cose da poter dire. Così come le aveva Where the Water Tastes Like Wine. Ma bisogna saper far capire alle altre persone, possibilmente in modo rapido e ben mirato, che cosa si ha da raccontare, altrimenti è tutto inutile.

E, attenzione, ciò non significa svendersi, cambiare videogioco, fare il prodotto “per la massa” o chissà cosa. Significa avere consapevolezza di ciò che si ha tra le mani e, soprattutto, a chi ci si dovrebbe rivolgere.

Aggiungo un’ultima cosa, prima di riflettere più nel dettaglio su alcuni di questi aspetti. Ci sono videogiochi che non hanno bisogno di chissà quale premessa drammaturgica, ma anche loro devono far capire in modo efficace e diretto che tipo di videogioco sono, in termini di meccaniche e dintorni. Un esempio pratico e funzionale per me rimane l’analisi di Ryan Clark su Crypt of the Necrodancer, da questo punto di vista. Il fatto che The Wreck sia un videogioco fortemente narrativo rende però tanto più necessario puntare su questi aspetti.

Non c’è nulla di male nelle nicchie

Riporto il seguente passaggio del già citato post di Reddit, perché lo trovo particolarmente significativo:

«Here’s the thing: we’ve always known The Wreck would be a tough game to market and sell. First, it hardly fits in one particular genre, but the family it’s closest to, the visual novels (it’s not really one, but hey), often ranks among the worst sellers on Steam. Then, there’s the theme. Today’s world is a tough place, and people tend to play games to escape from the real world rather than get dragged right back into it. Making a game about sick mothers and dysfunctional love relationships and terrible car crashes and then, woops, I almost spoiled the whole thing for you… let’s say, very sad stuff… Well, that was bound not to appeal to everyone – even though there definitely is an audience for deep, cathartic stories (as movies, books and graphic novels show)».

Già è interessante notare come non si riesca, neanche qui, a far capire bene cosa sia The Wreck. Non che si debba incasellare tutto, ma, come detto, sarebbe utile trovare una chiave per far arrivare in modo chiaro il prodotto ai potenziali acquirenti.

Sottolineo quest’ultima cosa: ai potenziali acquirenti.

The Wreck è una quasi-ma-non-proprio visual novel. Diamo un attimo per buono che lo sia a sufficienza e che possa piacere a chi, in generale, ama le visual novels, che sono un genere di nicchia.

Qui la cosa viene presentata come un elemento di difficoltà, ma non lo è necessariamente. Anzi, in moltissimi casi è molto più semplice puntare su una nicchia vitale e attiva che sul mainstream, specialmente quando si è “piccoli”. Ci sono degli ovvi problemi quando si toccano produzioni multimilionarie, perché allora la nicchia potrebbe non essere sufficiente, anche saturandola tutta. Ma per un videogioco come The Wreck e tantissimi altri non ci sarebbe alcun problema.

Puntare su una nicchia, anzi, ha il vantaggio di sapere a chi ci si vede rivolgere, quali sono le cose che gli piacciono, le parole su cui far leva per attirare la loro attenzione, e via dicendo. Per cui si può partire da lì, sapendo di avere una base di persone interessate e poi, partendo da lì, si può eventualmente tentare di allargarsi e raggiungere anche altre tipologie di persone.

Faccio un esempio letterario che è ben più “estremo”, in termini di nicchia, di The Wreck e delle visual novels. Io sono un amante della bizarro fiction e di Carlton Mellick III in particolare. Ci ho anche scritto un articolo accademico un paio di anni fa. Le opere di Mellick e di altri esponenti del genere sono tutto tranne che mainstream, sono sufficienti anche solo i titoli per farsene un’idea.

Però c’è una nicchia di persone interessate a quel genere di storie, su cui si può facilmente contare. Se scopro che Mellick ha pubblicato un nuovo romanzo lo compro volentieri, così come se mi arriva la notizia di un libro interessante di un’altra persona legata al genere. Ma questa uscita deve essere comunicata a me e alle altre persone della nicchia, in primo luogo. Non avrebbe alcun senso lanciare The Haunted Vagina nelle librerie e proporlo a chi legge Roberto Saviano o Chiara Gamberale. Richiederebbe un dispendio enorme di energie (anche monetarie) a fronte di un rientro minimale.

Ci sarebbero lettori e lettrici lì fuori che potrebbero innamorarsi di The Haunted Vagina o di I Knocked Up Satan’s Daughter? Sì, certamente, ma partire da loro con una comunicazione generica non sarebbe proprio funzionale, come strategia. Dubito che Mellick potrà mai fare i numeri di J.K. Rowling, ma non ha nemmeno la necessità di doversi mettere a competere con Harry Potter o qualsiasi altro best-seller.

The Wreck ha fatto qualcosa di mirato per parlare alla nicchia – peraltro ben più ampia dei lettori di bizarro fiction – di chi gioca a visual novels, videogiochi story-driven e dintorni? A me non sembra. Può essere che mi sia sfuggito qualche materiale o qualche iniziativa, ma quanto vedo è tutto molto generico. Ci sono troppi pochi elementi che possano raggiungere in maniera semplice e organica quel gruppo di appassionati. Certo, si può puntare sul progressivo passaparola, ma puntare su quello e basta significa fare marketing della speranza: comunichiamo un po’ a chiunque e poi speriamo che gli effettivi appassionati ci giochino e inizino a consigliarlo ad altri appassionati. Oppure sperare che arrivi un content creator che faccia esplodere la fama del gioco, ma questo capita poche volte e, anche in quelle particolari eccezioni, sono videogiochi molto diversi da The Wreck.

Sul passaggio del «people tend to play games to escape from the real world rather than get dragged right back into it» ho qualche perplessità, ma servirebbero più dati empirici per poter confermare o smentire. Per quanto possa forse esserci – in termini assoluti – una base di verità se si guarda il medium nel suo insieme, direi che ci sono tanti videogiochi che hanno performato bene pur mantenendosi molto aderenti alla realtà e presentando anche tematiche non semplici. That Dragon, Cancer è probabilmente uno degli esempi più immediati che vengono in mente.

Ma That Dragon, Cancer è molto più chiaro nel definire quale sia il “sugo” della sua storia: «Joel Green’s 4-year fight against cancer». Poi, intorno a questo, ci sono la morte, la religione, l’amore familiare e tanto altro ancora, ma si capisce subito in che direzione ci si sta muovendo. Poi, certo, un That Dragon, Cancer probabilmente venderà sempre meno di un Dark Souls, ragionando per esempi stereotipici, ma non è all’acquirente tipico di Dark Souls che si sta parlando. Però, come dicevo, questo aspetto richiederebbe un supplemento di indagine. Ma il discorso si potrebbe fare anche sullo stesso Bury Me, My Love, sempre sviluppato da The Pixel Hunt, che ha un’idea di fondo molto più chiara, non offre comunque chissà quale fuga dalla realtà e non ha delle tematiche proprio “allegre”, ma ha venduto molto più di The Wreck.

Nel post su Reddit ci sono anche delle suggestioni, che seguono quanto si è detto sul fatto che un pubblico per un videogioco come questo ci sia: « It just makes me sad that The Wreck is out there and they don’t know about it, because no matter how much effort we put on spreading the word, there’s so many excellent games, and so much fight for attention, that being noticed is super, super complicated».

E questo è verissimo. Solo nei primi mesi del 2022 erano usciti 6000 nuovi videogiochi su Steam. E, tra questi 6000, c’è ovviamente parecchia robaccia, giochi troll e dintorni, ma ci sono anche tantissimi prodotti validi, per cui è chiaro che la competizione sia spietata. Non solo per il guadagno, ma proprio per l’attenzione stessa. Proprio per questo, allora, è necessario ragionare su chi sia la mia “nicchia”, come raggiungerla, che cosa raccontarle del mio gioco ecc.

Io stesso sono piuttosto in target con The Wreck, ma nessuno dei materiali promozionali mi ha fatto scattare chissà quale curiosità sul fatto di volerci giocare. Non una curiosità sufficientemente forte da farmi dire “sì, voglio dedicare parte del mio tempo proprio a questo videogioco”, perlomeno. Scorrendo i commenti al post, vedo peraltro di non essere l’unico. E, sempre in quei commenti, vedo che c’è anche chi ha dato dei consigli concreti e mirati su dove promuovere il videogioco per raggiungere gli appassionati di visual novels.

In molti casi, poi, all’interno di una nicchia la competizione si sovrappone a una sorta di cooperazione più o meno indiretta, soprattutto quando la nicchia è piccola e ben motivata. Tornando all’esempio della bizarro fiction, se io compro i libri di Mellick sarò poi più propenso a voler perlomeno provare anche quelli di Mykle Hansen, di Gina Ranalli o altri, e viceversa. Così come molti appassionati dei tower defense finiscono per comprarli un po’ tutti quanti, tanto per fare un esempio videoludico. E un videogioco come The Wreck non deve competere in qualche segmento grande e iper-saturo. In parte – certo – si trova a competere non solo con tutti gli altri videogiochi, ma con tutto il settore dell’intrattenimento. Questa è la guerra del tempo che riguarda tutte le industrie creative, e da lì non si scappa. Togliendo però questa condizione di fondo… tutto sommato non è che debba sgomitare con migliaia di altri prodotti, all’interno della sua nicchia. Anzi, avrebbe probabilmente modo di trarre vantaggio da un pubblico già interessato ad altri videogiochi similari, se riuscisse a parlar loro in modo coerente.

Ah, c’è anche un probabile problema percettivo di prezzo. Può avere un suo senso nell’ottica del “mantenerlo alto per puntare ai saldi” o simili, ma è certamente una riflessione che andrebbe fatta, attraverso un confronto con tutta una serie di comparables. Non è la sede per discutere su quel che un videogioco “dovrebbe” costare in senso assoluto, ma di certo 19 euro è un prezzo respingente per un gran numero di persone, dinnanzi a un prodotto come questo.

Videogiochi per professione o per hobby

Un paio di anni fa mi è stato chiesto di scrivere un libro sulle professioni del videogioco: Lavorare con i videogiochi. Competenze e figure professionali. Un aspetto del libro che diverse persone mi hanno detto di aver apprezzato è la sua parte iniziale, in cui parlo dello sviluppare videogiochi per hobby o per lavoro. Se sviluppare videogiochi è il proprio lavoro, significa che con quell’attività si pagano bollette e spesa, per cui significa anche approcciarsi a essi con un approccio attento. Come ho detto sopra, ciò non deve essere inteso come “facciamo la commercialata”, anche perché non tutti possono competere efficacemente in quell’ambito. Ma può significare scegliere una nicchia, capire cosa gli piace e come raggiungerla. E poi, sulla base di quello, capire quale prodotto proporre loro e in che modo.

Se invece i videogiochi sono un hobby tutto cambia. Anche qui, hobby non significa per forza “lo faccio gratis”. Si può guadagnare anche da un hobby e a volte le cifre possono essere interessanti, ma l’approccio è differente. Se quel videogioco vende poco o nulla non mi sono esposto economicamente. Posso rimanere insoddisfatto per il fatto che abbia raggiunto poche persone o cose del genere, ma ho una maggiore tranquillità.

Non conosco abbastanza la situazione di Florent per poter dire dove si collochi lo sviluppo di The Wreck. Mi sembra comunque che abbia preso la cosa con positività e questo mi fa piacere. Spero soprattutto che non abbia avuto una esposizione monetaria troppo forte legata a questo videogioco.

C’è però un ulteriore punto, che ho visto sottolineato in almeno un commento al post: lo sto facendo per me o per gli altri?

Anche questo ha molto a che fare con il binomio lavoro/hobby. Quando faccio qualcosa per hobby, posso farla primariamente per me. Posso scrivere – tanto per dire – un romanzo partendo da un’idea che mi interessa tantissimo, e lo faccio per me stesso, perché magari ritengo che la scrittura sia terapeutica. Poi magari autopubblico quel romanzo e scopro che interessa a qualche centinaio di persone.

Ma se scrivessi romanzi per mestiere? Allora dovrei pensare anche agli altri. John Truby sottolinea questo “anche”. Scrivere solo per sé stessi è autoreferenziale, forse persino egoista in certe situazioni. Scrivere solo per gli altri è spesso poco interessante, talvolta alienante. Si può fare in determinate occasioni, ma a lungo andare è difficile che sia la soluzione.

Bisogna, allora, trovare una via di mezzo. Qualcosa che possa “cambiarci la vita”, per usare sempre le parole di Truby, ma che sappiamo possa risuonare con altre persone. Non con tutte quante, quello è impossibile, ma almeno con una buona dose di persone all’interno della nicchia che ho scelto.

La storia scelta è troppo personale? Non credo che sia necessariamente quello il punto. Ci sono storie altrettanto personali che trovano però un pubblico ben più ampio e motivato ad accoglierle. Alle volte è semplice fortuna, quella può sempre saltare fuori, ma in altre occasioni è perché c’è quel punto di incontro di cui parlava Truby: qualcosa che possa interessare al mio pubblico e anche a me.

Leggendo il post, ho il timore che Florent abbia ragionato solamente sul “voglio raccontare questa storia personale”, riflettendo poco su chi avrebbe poi fruito di quella storia. Poi magari ci sono state delle riflessioni, ma anche in quel caso credo che qualcosa si sia inceppato.

Le recensioni

Torno a citare il post di Florent: « Then came the big day, and with it, the first reviews. And they were… Incredibly good. I mean, really good. Rock Paper Shotgun’s Bestest best good. 9/10 on Pocket Tactics, 8/10 on Gamespew and 8.5 on Well Played good. We were absolutely ecstatic, and we started believing that, maybe, this excellent reception was a sign of a nice commercial success to come».

È qualcosa che ho già visto anche in passato, con Where the Water Tastes Like Wine e non solo. Ricordo anche il caso di Sunset dei Tale of Tales, tanto per fare un altro esempio che vorrei analizzare in un futuro spero prossimo.

Le recensioni hanno poco o nulla a che fare con le vendite. Non è un discorso di lontananza tra pubblico e critica, per quanto – soprattutto al di fuori del medium videoludico – vengono in mente diversi esempi emblematici in tal senso. Anche quando c’è un allineamento tra opinioni del pubblico e della critica, il pubblico potrebbe rimanere un gruppo estremamente ristretto. Che magari conferma le opinioni della critica, ma che non viene influenzato da essa.

In merito a questo punto segnalo un paio di miei precedenti articoli, uno sul giornalismo videoludico e uno sulla critica videoludica, per chi volesse approfondire, visto che lì avevo già toccato la questione, citando diverse fonti in merito.

Volendo qui riassumere la questione: la recensione non sposta vendite. Può avere un’altra utilità, ma non ha più (se mai lo ha effettivamente avuto) questo potere.

Sicuramente le diverse recensioni, nell’insieme, qualche vendita la hanno prodotta, quello sì. In molti casi perché hanno semplicemente fatto sì che The Wreck raggiungesse qualche persona in target che non conosceva il videogioco.

Non so però quante possano essere queste persone. Anche immaginando che 2-300 acquirenti siano giunti dalle recensioni, non sono numeri che possono impattare più di tanto in un simile contesto. E, pensando a casi analoghi su cui è emerso qualche dato, sono forse numeri anche ottimistici.

Certo, le recensioni aiutano a far capire che un videogioco esiste, come è emerso in diversi casi (come detto, ho approfondito altrove), ma di per sé non sono un indicatore affidabile.

Ulteriori disallineamenti

Chiudo segnalando un ulteriore disallineamento. Marginale, rispetto ad altre questioni, ma comunque significativo. Sembra esserci una generale ritrosia nel voler dire di cosa si parla in The Wreck. Lo si vede anche nel post di Florent, ma questo attraversa tutta la comunicazione. Capisco che ci sia la necessità di evitare lo spoiler, ma tutto ciò stride con l’altra necessità, quella di mettere tutta una serie di trigger warning sui contenuti potenzialmente “disturbanti” del videogioco.

Trovo che la combinazione di queste due cose abbia contributo a produrre una comunicazione molto disallineata, in cui si accenna costantemente a certe tematiche (come detto sopra, fin troppo numerose) senza però far mai capire cosa potremmo effettivamente aspettarci.

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