Tag: videogioco Pagina 1 di 11

Quel che ho imparato dai Vore Games su game design e narrazione

DISCLAIMER: l’articolo parla di videogiochi NSFW (not safe for work). Ho mantenuto un linguaggio molto asciutto ed evitato di indugiare in particolari disturbanti. Non è un articolo sensazionalistico, è un’analisi. Nonostante ciò, se pensate che questi contenuti possano comunque disturbarvi chiudete l’articolo.

Kirby
NON parleremo di Kirby, anche se è sicuramente il primo nome che viene in mente a molti, quando si parla di videogiochi e abbuffate. Tratteremo argomenti un po’ diversi.

Ho deciso di scrivere questo articolo in seguito al delisting di oltre 21.000 videogiochi NSFW su Itch.io.

Potrebbe essere il primo di una serie di altri articoli che farò in futuro o rimanere un esempio isolato, questo lo vedremo.

Tutti delistati in un istante, come quando Thanos schiocca le dita

Non sto a riassumere tutta la faccenda legata a Itch.io, diciamo che è un enorme campanello d’allarme ma almeno per il momento la situazione potrebbe essere anche peggiore.

Per prima cosa, i videogiochi non sono stati cancellati (salvo alcune eccezioni) ma “solo” nascosti, per cui non ci arrivi senza un link diretto. In secondo luogo, gran parte dei videogiochi gratuiti sono ritornati. Perché – ricordiamolo – il problema di fondo è legato ai processori di pagamento. La situazione è quindi un po’ meno cupa del previsto, anche perché molti creator di giochi NSFW raccolgono fondi fuori da Itch, con Subscribestar, Patreon o simili.

Inutile dire che questo è comunque un precedente pericoloso per mille ragioni.

Itch sta tornando sui suoi passi

In ogni caso, l’effettivo spunto che mi ha portato a spingere questo articolo è un altro.

Il dispiacere nel vedere un gran numero di commenti online. Superficiali e disinformati, che dicevano “eh sì in effetti è un problema, ma probabilmente non abbiamo perso niente di valore”.

Per carità, forse in certi casi sono anche commenti fatti in buona fede, ma sono pur sempre persone che parlano di qualcosa che in realtà non conoscono.

Come replicare?

Il modo più veloce e immediato sarebbe quello di selezionare qualche videogioco di denuncia, con tematiche “difficili”. C’è chi lo sta facendo ed è giustissimo ricordare che ci sono questi videogiochi, che hanno una grande importanza.

Ma se ci si fermasse a quello, i detrattori potrebbero dire che si sta facendo cherry picking. “Eh certo, su 21.000 videogiochi hai selezionato quei 2-3 titoli di valore, facile…”. Immagino una possibile risposta del genere.

Non tutti i videogiochi devono essere Curtain (che peraltro è un bel pugno nello stomaco)

Allora ho deciso di proseguire diversamente.

Ho selezionato un gruppo di videogiochi che per il mainstream è completamente sconosciuto. E che quando viene conosciuto è spesso giudicato cringe, di cattivo gusto o semplicemente troppo strano.

Avevo in mente un po’ di potenziali candidati. Alla fine sono partito dai vore games.

Il vore è un feticismo non praticabile nella realtà, visto che si basa su una pratica anatomicamente impossibile: una persona viene ingerita intera da un’altra persona. Più o meno come se parlassimo di serpenti.

La variante più comune è quella definita “soft vore”: la preda viene ingoiata viva e rimane nello stomaco dell’altra persona fino a quando viene digerita. È meno diffuso l’”hard vore”, che è simile al cannibalismo (la preda viene smembrata, eventualmente cucinata e poi mangiata). Altra variante meno diffusa è il “safe vore”: la preda, ingoiata intera, non viene digerita ma rimane al sicuro dentro allo stomaco dell’altra persona.

Sempre in termini statistici, nell’immaginario vore sono molto più diffuse le donne nel ruolo di predatrici. Questo emerge molto nei videogiochi di cui andremo a discutere. Il vore ha poi mille altre declinazioni (per esempio in base a come viene ingoiata la preda) e può sovrapporsi facilmente a molti altri immaginari, come quello furry o quello giantess. In ogni caso, questo non è un articolo sul vore come fenomeno in generale.

A volte ci sono contenuti “vore” in prodotti mainstream, come quando l’aliena Serleena divora un criminale all’inizio di Men in Black 2

Perché parlare dei videogiochi vore?

Per diverse ragioni.

Per prima cosa, ne esistono centinaia e molti di questi si trovano su Itch. Per cui parliamo di un fenomeno considerevole. Ovviamente non ci sarà modo di fare una panoramica completa, prenderò alcuni esempi.

In secondo luogo – come già accennavo – siamo davanti a quel genere di contenuti che verrebbero facilmente derubricati a “roba cringe senza valore”. Un approccio che è peraltro purtroppo molto diffuso, anche quando si esce al di fuori di giochi fetish.

Il mio lavoro mi porta ad approfondire il più possibile i videogiochi in ogni loro declinazione. Potrebbe sembrare ovvio, ma in realtà molte persone che si occupano di videogiochi ne seguono solo un pezzo: quello mainstream, che comprende le grandi produzioni e gli indie più chiacchierati.

Non sto dicendo che quel che faccio io sia meglio o peggio. Segnalo solo che negli anni ho approfondito un gran numero di mondi videoludici, anche molto vivaci, che restano totalmente al di fuori dal mainstream.

E nel mezzo ci sono anche contenuti NSFW, a fianco di generi assolutamente “safe” che per varie ragioni sono figli di un dio minore. Trovandomi sempre più spesso a fare consulenze con persone che vogliono sviluppare (e soprattutto monetizzare!) videogiochi, mi è molto più utile conoscere questi mondi rispetto a GTA5, che è un interessantissimo studio di caso ma non avrà mai nulla a che fare con questi sviluppatori.

Per cui ho approfondito anche tante aree NSFW che escono dal classico immaginario “vanilla”. Ho studiato il più possibile i loro trend, quali sono gli elementi di attrattiva per il loro pubblico, come vanno a monetizzarli e molto altro.

E nel corso degli anni mi sono reso conto di una cosa.

Si può imparare tanto, da questi videogiochi. In termini di narrazione, di game design e di corrispondenza tra il gioco e le aspettative del pubblico.

Quest’ultimo punto lo terrò ai margini del discorso, se mi seguite sapete già che è un punto su cui martello, tanto da aver fatto di recente anche un videocorso che unisce creatività e marketing per chi vuole creare giochi.

Per cui c’è molto da imparare. Sempre. Anche da videogiochi come quelli che vedremo.

Anzi, mi viene da dire che talvolta sono anche meglio, come palestra di osservazione. Perché vai a levare dai piedi tutte le glosse, i commenti e le diatribe sul videogioco mainstream di grande successo. Dove puoi trovare tantissimi discorsi brillanti, ma a volte ti portano facilmente a distrarti.

Qui di seguito ho selezionato alcune mie riflessioni nate da questi videogiochi.

E le ho rese in una forma che, spero, possa essere facilmente… digeribile.

Perdonatemi la battutaccia, ma era d’obbligo, visto l’argomento.

Ah, gran parte dei videogiochi che citeremo sono dei work in progress. Solo pochi di loro sono dei prodotti effettivamente completi. Per cui aggiornamenti futuri potrebbero modificare quanto detto qui.

Il dilemma del bene e del male: dissonanza ludonarrativa ed eroine positive

Voi come andreste a gestire una protagonista capace di ingoiare e digerire i suoi avversari?

A seconda delle premesse iniziali della storia, è possibile che emerga una sorta di dilemma etico che riguarda il comportamento delle “eroine” protagoniste, nel loro approccio al vore.

Come ricordato, la forma largamente più diffusa di contenuti vore è quella in cui le persone ingoiate muoiono nello stomaco del predatore e vengono digerite. Un contesto che può incastrarsi decisamente male con l’idea di un’eroina positiva.

Ma prima di osservare il caso specifico, facciamo alcune premesse, perché questa è proprio una di quelle situazioni in cui una riflessione sui vore games ci porta in realtà a riflettere sul medium nel suo insieme.

Nonostante alcuni luoghi comuni, in generale i giocatori non amano giocare nei panni di un cattivo. Lo si vede molto bene quando vengono messe in campo differenti opzioni tra cui poter scegliere. In Mass Effect, per esempio, abbiamo modo di far compiere azioni “paragon” o “renegade” al comandante Shepard, l’avatar che controlliamo.

Uno Shepard paragon cerca sempre il compromesso, ovunque sia possibile prova a salvare tutti e mantiene anche un comportamento educato. Per uno Shepard renegade, invece, il fine giustifica i mezzi: l’importante è salvare la galassia, non importa se ci lasciamo un po’ di cadaveri lungo il percorso. Circa il 70% dei giocatori, perlomeno alla prima partita, ha scelto il percorso paragon (e su diverse scelte la percentuale sale oltre il 90%).

Comandante Shepard
Shepard è un bravo ragazzo

Si trovano dei dati analoghi anche in Fable, un’altra serie nota per la possibilità di essere buoni o cattivi. Non sempre vengono condivisi i dati sulle scelte compiute, ma quando sono presenti il quadro è piuttosto chiaro: potendo scegliere, i giocatori preferiscono essere i buoni della situazione. In alcuni casi, i giocatori preferiscono recuperare su YouTube le scelte più crudeli, per vederne gli esiti senza doverle selezionare in prima persona. È quel che hanno fatto alcuni con la cosiddetta genocide run di Undertale, tanto per fare un esempio concreto. Hanno ammesso che non avrebbero mai trovato il coraggio di uccidere i mostri presenti nel gioco.

Questo dato si inserisce all’interno di un quadro più ampio, legato a una tendenza che – in apparenza – va in contrasto con quanto detto: l’abbondanza di “cattivi” che diventano protagonisti di sempre più serie televisive, film e storie di vario genere.

Si tende a parlare di “antieroi”, per quanto non sia il termine migliore, perlomeno non in termini narratologici. Nel momento in cui diventa protagonista, un personaggio sarà sempre “l’eroe” della sua storia e, tendenzialmente, penserà di essere nel giusto.

Per questo sarebbe meglio parlare di “eroi negativi”: sono i protagonisti, ma il loro sistema valoriale è generalmente visto come negativo, dalla maggior parte delle persone. In ogni caso, a prescindere dai termini scelti, la contrapposizione è solo apparente.

In primo luogo, è raro trovare dei veri malvagi come protagonisti apprezzati. In molti casi si tratta in realtà di figure dalla morale grigia, oppure degli incompresi, magari mossi da un ideale nobile ma che cercano di perseguire con i mezzi sbagliati (per chi volesse approfondire, consiglio la lettura di The dark side. Bad guys, antagonisti e antieroi del cinema e della serialità contemporanei, scritto da Braga, Cavazza e Fumagalli). Un personaggio come Homelander (Patriota, in italiano) della serie TV The Boys è più l’eccezione che la regola, ed è inserito in un racconto estremamente corale in cui, per larga parte, non è il protagonista.

Homelander non è la norma

Bisogna anche ricordare che c’è una differenza significativa tra i videogiochi e forme meno interattive di narrazione. Si può dire che nei videogiochi siamo noi giocatori a “premere il grilletto”, per cui c’è un differente coinvolgimento emotivo. Per restare sull’ultimo esempio, anche una persona che si sente a proprio agio nel guardare Homelander che uccide un innocente, potrebbe sentirsi male nel dover controllare Homelander che uccide un innocente.

Aggiungiamo a questo scenario la cosiddetta dissonanza ludonarrativa, che si riscontra quando c’è uno scollamento tra ciò che facciamo nel gioco e ciò che quel gioco ci sta raccontando. L’esempio forse più semplice e immediato è quello di Nathan Drake nella serie Uncharted. Drake viene presentato per tutta la serie come un ladro gentiluomo, un po’ birbantello ma sicuramente buono. Eppure il gameplay di Uncharted abbonda di sparatorie, in cui uccidiamo centinaia (per non dire migliaia) di nemici. Certo, sono gli sgherri di qualche pericolosissimo boss criminale che vuole conquistare mezzo mondo, ma rimane comunque un numero alquanto elevato per poter giustificare la “bontà” di Drake. Se si uscisse dalla narrazione esplicita e ci si mettesse a ragionare sull’operato di questo eroe nell’insieme, sarebbe probabilmente difficile farlo passare per un semplice “ragazzaccio” a cui stanno strette le regole.

Di solito, soprattutto nei videogiochi di ruolo, c’è una non dichiarata distinzione di fondo tra quella che chiamo la dimensione della “città” e la dimensione della “wilderness: tutto ciò che rientra nella prima sfera va protetto, tutto ciò che sta nella seconda può essere massacrato. Per cui se un NPC umano si trova in “città” non può essere attaccato (o, se lo si fa, veniamo sanzionati e visti come malvagi), mentre se risiede nella wilderness è un brigante e può (anzi, deve) essere eliminato.

A volte, alcuni videogiochi – per esempio la serie Tales of – tendono comunque a suggerire una differenza tra il combattimento contro gli umani e contro i mostri. Si lascia intendere che i mostri vengono uccisi, mentre gli umani sconfitti finiscono solo KO. In altri casi, non viene neppure posta una simile distinzione. Aloy, per esempio, è la paladina dell’umanità, ma in Horizon: Zero Dawn (2017) non suscita alcun interrogativo il fatto che uccida centinaia di banditi, visto che sono collocati in quella dimensione di wilderness che citavamo.

Quanti sono i banditi che Aloy ha eliminato?

Ma proviamo a forzare quest’ultimo caso. Che cosa accadrebbe, se Aloy torturasse i banditi? Gran parte dei giocatori percepirebbe quel gesto come un’inutile crudeltà.

E se Aloy uccidesse dei civili innocenti, con o senza tortura? Sarebbe probabilmente anche peggio e (quasi) nessuno vorrebbe identificarsi in lei. Con azioni di questo genere, perderebbe subito lo status di “eroina”, che invece può ancora mantenere a fronte dell’uccisione dei banditi: per quanto il loro numero sia elevato e potrebbe far scattare una dissonanza ludonarrativa, può ancora rientrare tra le azioni “lecite” di un eroe.

E se Aloy divorasse e digerisse altre persone? In quel caso, nascerebbe il dilemma alla base di certi videogiochi vore. Quelli, perlomeno, dove si gioca nei panni di una predatrice. Essere una preda genera molti meno dilemmi (più sotto vedremo anche casi di questo genere).

È possibile simpatizzare per una protagonista che uccide (in un modo presumibilmente doloroso e crudele) altre persone? Anche in un contesto vore oriented, dove questo elemento è un tratto caratteristico, non sempre si riesce a far funzionare il tutto. Un pochino perché c’è chi preferisce varianti più safe (ma sono generalmente una minoranza), ma soprattutto perché – quando emerge una storia un minimo strutturata – è davvero difficile mantenere una coerenza narrativa di fondo.

È allora interessante osservare le soluzioni che vengono messe in campo per uscire da questo dilemma. La prima e più semplice risposta – che forse per alcuni è una non soluzione – è semplicemente quella di ignorare il problema: lasciare una storia di fondo piuttosto vaga e non approfondire troppo la “lore” di quel mondo.

Si viene semplicemente calati in una realtà in cui un gran numero di persone viene mangiata, senza un motivo particolare e senza che questo sia fonte di troppe preoccupazioni. Si procede più che altro per un accumulo di piccole storie separate, mettendo magari anche un buon numero di personaggi il cui desiderio è proprio quello di essere divorati.

Alcuni dei giochi di questo genere hanno peraltro un ottimo seguito (per gli standard di questa nicchia), come Vore Town di Egads o Sabrina the Hungry Witch di Oppi. Quest’ultimo segue la storia di una ragazza-coniglio che diventa una predatrice e inizia a mangiare un gran numero di altre ragazze (sia umane sia monster girls). C’è una storia di fondo, legata a una principessa da salvare e al complotto ordito da una sacerdotessa naga, ma la componente vore predomina largamente sulla narrazione.

In altri casi si cercano alcuni compromessi, soprattutto quando sono state poste determinate premesse narrative. Un ottimo esempio in tal senso è Evoria di Forotherpurposes. Il gioco ha un inizio molto simile a un famoso videogioco di un’altra nicchia fetish: Some Bullshit di Nerds1.

Some Bullshit è probabilmente uno dei videogiochi più noti, quando si parla di ragazze che mangiano fino a scoppiare

Some Bullshit è un lungo gioco di ruolo focalizzato su una ragazza che attiva i suoi poteri magici quando mangia del cibo. La protagonista è sempre affamata e, in un gran numero di situazioni, mangia a sazietà. La stragrande maggioranza dei contenuti è legata a del semplice cibo, ci sono solo un paio di situazioni classificabili come vore, e sono accennate o borderline, non seguono mai appieno i canoni vore. Al fianco di Some Bullshit sono poi emersi diversi altri videogiochi più o meno similari, basati sull’ingestione di grandi quantità di cibo (sia come meccanica in battaglia sia come espediente narrativo). Gumia’s Unbelted Terror di Grimimic, per esempio, segue la storia di quattro eroine particolarmente affamate.

Anche le premesse iniziali di Evoria sono molto simili: la principessa Naomi Nakano, per una serie di circostanze, si ritrova a viaggiare in compagnia della ladra Renee Rousseau. Ben presto, Naomi scopre di poter usare la magia quando mangia del cibo e sviluppa un crescente appetito. Anche Renee comincia a mangiare sempre di più. Tutta la prima parte del gioco rientra nel mondo stuffing di Some Bullshit, Gumia’s Unbelted Terror e dintorni: pranzi luculliani, montagne di cibo, abbondanti bevute. Poi, progressivamente, iniziano i contenuti vore, accompagnati dal dilemma di fondo accennato in precedenza.

Naomi Nakano
Naomi, la protagonista di Evoria, mentre si rimpinza di torta

Naomi Nakano è stata presentata fin da subito come una ragazza buona e gentile. Forse un po’ troppo rapida nell’appropriarsi del cibo altrui, ma vederla digerire un’altra persona sarebbe un gesto narrativamente ingiustificabile, che cozzerebbe fin troppo con il suo buon cuore. Anche la sua compagna di avventure, Renee, ha una morale decisamente più grigia, ma sarebbe comunque difficile giustificare certi suoi gesti. Più tardi nel gioco, a loro due si aggrega anche una terza ragazza, in apparenza del tutto malvagia e irredimibile, ma che rivela poi un cambiamento d’animo (e un tragico passato che aiuti a empatizzare con lei).

Come conciliare, dunque, coerenza narrativa ed empatia verso le protagoniste con i contenuti vore? Per prima cosa, inserendo una serie di scene in cui le prede vengono risputate prima che sia troppo tardi. Per esempio, durante l’esplorazione di una montagna, Renee inghiotte l’amica Naomi per salvarla dall’assideramento, ma la sputa appena raggiunge una grotta riparata, prima di digerirla (a meno che il giocatore non perda troppo tempo, in quel caso si giunge a un game over). Più avanti nel gioco si assiste a un bizzarro processo, durante il quale diverse persone vengono ingoiate e poi risputate, senza che nessuno si faccia del male.

Quando poi si giunge all’effettiva digestione della preda, si mette ben in chiaro che non si tratta di esseri umani. Come quando Naomi divora e digerisce un clone malvagio che è stato inviato per ucciderla. Se ci trovassimo nel Frankenstein di Shelley o in un romanzo di Asimov, forse ci si interrogherebbe maggiormente sulla natura di questo clone, ma in una storia come Evoria è sufficiente sottolineare che sia una sorta di clone robotico prodotto in serie, per poter dire che Naomi non ha ucciso nessuno.

Simili interrogativi emergono soprattutto quando entra in gioco una componente narrativa piuttosto sviluppata, ma anche giochi molto più gameplay oriented seguono comunque in diversi casi questa regola di fondo. Le unità da battaglia di Vessel Tactics sono degli androidi incapaci di digerire un umano (ma sono prontissime a divorarsi a vicenda). I nemici di Project G.L.U.T.T. sono umanoidi frutto di esperimenti genetici, ma non sono (o, perlomeno, non sembrano) degli effettivi esseri umani.

La protagonista di Project G.L.U.T.T. mentre sta per mangiare dei missili

Poi ci sono casi in cui questo dilemma sembra proprio essere il tema di fondo che guida l’intera narrazione e le scelte del giocatore. Per quanto sia in una fase di sviluppo ancora embrionale, New Pred in Town di Anunnaki potrebbe diventare uno dei più interessanti esponenti di questa categoria.

Per prima cosa, è uno dei vore games con la lore più estesa, visto che presenta un intero codex di voci che spiegano l’intero mondo di gioco, cercando di renderlo il più realistico possibile. Per esempio spiegando come funzionano le scuole di autodifesa che insegnano a sfuggire dallo stomaco di una predatrice, cosa che non viene praticamente mai menzionata altrove. O provando a inserire un complesso sistema di norme sociali che limitano l’azione delle predatrici, per evitare che la società stessa finisca per collassare in un homo homini lupus, dove tutti temono costantemente tutti gli altri. Per cui, in generale, viene considerato “lecito” mangiare solo delle altre predatrici, soprattutto se per autodifesa. Chi divora indiscriminatamente chiunque viene definita una “degen” e rischia di attirare su di sé troppa attenzione indesiderata e numerosi intenti di vendetta. Alcune donne, definite “paragon”, attaccano solo le “degenerate”, con l’intento di proteggere i più deboli.

new pred in town
Una scena di New Pred in Town. Liz, la protagonista, è la ragazza coi capelli rossi

Liz, la protagonista di A New Pred in Town, può andare a plasmare man mano la sua personalità in base alle scelte intraprese. Può fin da subito seguire la strada della “degenerata”, divorando una ragazza innocente all’autogrill, ma può anche mostrarsi compassionevole, evitando di vendicarsi e lasciando vive quelle che sarebbero delle facili e meritate prede.

Come spesso succede in giochi con scelte morali più o meno frequenti, le persone intorno a lei incarnano differenti archetipi (e giudicheranno in maniera differente le azioni di Liz). Per cui da un lato c’è una ragazza come Luna, una paragon sempre pronta a schierarsi in difesa dei più deboli, e dall’altro c’è Isabela, che ha fatto fortuna come influencer proprio mettendo in bella mostra il suo lato degen. La suddivisione iniziale (le varie ragazze del club, anche visivamente, sono divise in due gruppi) dovrebbe rivelare qualche sorpresa, ma l’idea di fondo è chiara.

Un altro caso interessante è Jormungandr di AsteriskGames74. Come tanti altri, è ancora lontano dal completamento, per cui non è chiaro quale sarà la direzione futura della storia, ma quanto visto nella prima parte mostra uno scenario interessante.

Jormungandr
La schermata iniziale di Jormungandr

Sintetizzo la premessa narrativa del mondo di gioco: al fianco degli umani esistono varie tribù di monster girls che amano divorare le persone. Alcuni umani vivono come bestiame e servono solo a nutrire i mostri. Altri convivono con questi ultimi e sono relativamente al sicuro, ma possono comunque venire divorati. In questo scenario, il giocatore controlla un gruppo di monster girls particolarmente voraci, che sarebbero i “leviatani” di un’antica leggenda. Inizialmente operano individualmente (si controllano gruppi diversi a seconda della sessione di gioco), poi si riuniscono.

È difficile vederle come protagoniste “positive” secondo qualsiasi canone tradizionale della narrazione. La giovane strega Adelaide, per esempio, è la classica bulla scolastica che opera insieme alle sue due migliori amiche (una ragazza goblin e una fata). Nonostante la giovane età, Adelaide ha divorato migliaia di persone. Uno dei pochi esseri umani che non intende digerire è un ragazzo di nome Geno, il suo schiavetto personale, costretto a obbedire a ogni capriccio di Adelaide e delle sue amiche. Adelaide è molto attaccata a Geno, ma lo è in modo assolutamente possessivo: Geno le appartiene, è una sua proprietà. Una relazione assolutamente tossica.

Geno scopre dell’esistenza di un gruppo che vuole portare avanti un rapporto differente tra umani e mostri. Esistono in effetti, in quel mondo, alcune realtà in cui ci sono mostri che non desiderano divorare gli umani. Geno decide allora di fuggire lontano dalla scuola – e da Adelaide – insieme a Ocean, una giovane Lamia che non ha mai divorato nessuno. Per riuscire a scappare rapidamente, Ocean ingoia Geno (sembra in contraddizione con quanto detto finora, ma viene precisato più volte che i mostri hanno un grande controllo sul loro stomaco, per cui lei può tenerlo nella sua pancia senza digerirlo). Il secondo capitolo del gioco si conclude con il successo della loro fuga. Adelaide, furibonda, li ha inseguiti in spiaggia, ma Ocean sta già nuotando in mare aperto, troppo lontana.

Ocean la lamia
La lamia Ocean mostrata all’inizio del secondo capitolo di Jormungandr

Tralasciando la componente vore e immaginando che questo sia un drama scolastico, sarebbe molto difficile trovare una storia mainstream che segue il punto di vista di Adelaide. La giovane strega sarebbe la classica avversaria, la ragazza manipolatrice e possessiva, spalleggiata dalle sue amiche, che fa da ostacolo al lieto fine romantico. I “buoni” dovrebbero essere Ocean e gli altri mostri che vogliono vivere insieme agli esseri umani. Ed effettivamente, in un grande colpo di scena nel terzo capitolo, sono loro a vincere sui protagonisti.

Va ricordato che, come molti altri videogiochi qui presentati, anche Jormungandr è un work in progress e potrebbero esserci un gran numero di ulteriori ribaltamenti di prospettiva, in futuro. Ma vediamo la situazione nel terzo capitolo (attualmente l’ultimo pubblicato). Ocean e Geno, ora in salvo, incontrano la strega Helena. Questa donna guida i mostri che si oppongono al sistema vigente ed è anche la madre di Adelaide.

Helena mira a colpire i “leviatani” prima che possano diventare troppo forti, divorandoli. Il che rappresenta un enorme tabù, per i mostri. Helena riesce a separare le protagoniste e coordina un gruppo di ribelli, tra cui viene arruolata anche Ocean, che divora la goblin Gretel (una delle amiche di Adelaide) e la lamia Valerie. Helena stessa divora sua figlia Adelaide.

Solo la diavolessa Lydia (un’altra protagonista giocabile) si salva per miracolo all’imboscata. Difficile immaginare al momento come proseguirà la storia ma sembra che, attraverso un qualche espediente, le protagoniste torneranno, nonostante siano state tutte digerite. Sembra che la direzione sarà quella anche solo per non vanificare tutto il lavoro fatto sui loro asset.

Hanno (temporaneamente) vinto i “buoni”, nonostante siano i rivali delle protagoniste? Volendo tirare a indovinare, è possibile che la storia evolverà verso qualche altro twist in cui l’idea di fondo è che tutte le parti siano moralmente grigie e che tutto sarà legato all’evento apocalittico prefigurato. Jormungandrè infatti uno dei nomi del mitico serpente della mitologia norrena, che emergerà dalle acque durante il Ragnarǫk, quando arriverà la fine del mondo. E nel gioco viene detto più volte che si sta avvicinando un evento che sconvolgerà il mondo intero, anche se la sua natura non è ancora stata chiarita. Per cui è tanto più possibile che, davanti a uno scenario del genere, qualsiasi considerazione sulla “bontà” di certe azioni venga meno. E le azioni di Helena non sono comunque quelle di una classica eroina, visto che sfrutta a sua volta Geno e non si fa problemi a divorare la sua stessa figlia.

Quello dei videogiochi vore è un caso unico? No, ma è sicuramente un contesto poco frequente, che ci ricorda una importante lezione: ci sono sempre eccezioni, rispetto a quella che è una norma consolidata. Nella norma, una storia pensata per un pubblico mainstream deve presentare un personaggio principale che sia un buono. Può essere un personaggio incompreso, tormentato, mosso da un ideale di giustizia che non è quello socialmente accettabile, ma deve avere un suo codice di condotta e non può spingersi oltre certi limiti.

Anche perché superandoli è facilissimo cadere in quell’approccio da fanfiction edgy, in cui il risultato è semplicemente una storia che… fa schifo.

Perché sembra solo lo sfogo adolescenziale di qualcuno che è arrabbiato col mondo. Ovviamente c’è chi riesce a gestire il tutto un po’ meglio della fanfiction media, ma non stupisce il fatto che altri contesti narrativi paragonabili a questo siano nati proprio dal panorama fanfic. Penso per esempio al cosiddetto Omegaverse o A/B/O, in cui ci sono storie dove certe dinamiche relazionali non sarebbero mai accettabili in un contesto mainstream.

taidama okaeri
L’anime Taidama, Okaeri, una delle produzioni “ufficiali” legate al cosiddetto Omegaverse.

Ma in un contesto come quello vore la situazione è molto più interessante da approcciare, perché è proprio presente alla base questa tensione insolvibile, che si ritrova anche nelle storie, oltre che nei videogiochi. Da una parte, la forma più diffusa del vore è quello in cui le prede vengono digerite vive. Le varianti safe (in cui le prede vengono ingoiate ma sopravvivono) sono molto più rare. Dall’altro, più una storia è coinvolgente è più si finisce per sentirsi emotivamente coinvolti e provare dispiacere.

Un conto è vedere un’immagine di passaggio in cui una sconosciuta divora un’altra sconosciuta. Un altro discorso è passare diverse ore in compagnia di un personaggio, come avviene in un videogioco. Questo apre un gran numero di scenari interessanti da analizzare. Alcuni dei quali li abbiamo portati qui come esempi.

E non sono le uniche soluzioni. Un’altra strada, che è forse in apparenza controintuitiva, è quella di far sì che la protagonista sia una preda e non una predatrice (non primariamente, perlomeno). Questo funziona bene soprattutto con i videogiochi horror, in cui c’è da sempre un’ottima sinergia tra meccaniche e player experience, quando si parla di personaggi indifesi o comunque in difficoltà.

Divorare i nemici in battaglia come avviene in Jormungandr è una meccanica di gioco che si lega coerentemente alla player experience evocata: si sta giocando nei panni di un gruppo di potentissime predatrici seriali. In un survival horror, invece, bisogna sfuggire ai nemici, per cui serve una protagonista con caratteristiche differenti.

E servono tanti game over.

Cercare il game over

In linea di massima, il game over è qualcosa che vogliamo evitare, visto che ci impone di rifare una parte del gioco e che è un chiaro indicatore del fatto che non eravamo all’altezza della sfida.

Ci sono alcuni casi in cui il game over non genera particolare fastidio anche quando si ripete nel tempo. Di solito avviene in videogiochi particolarmente “caciaroni”, assurdi, basati sul trolling o su qualche altra dichiarata stranezza. In casi del genere siamo preparati all’idea che moriremo spesso, magari anche per puro caso, ma saranno delle morti alquanto divertenti.

Esistono poi rari casi in cui il game over è volutamente ricercato. Questo avviene soprattutto in alcuni survival horror, quando in certi giocatori si attiva un interesse “collezionistico” per tutte le possibili morti del protagonista. La serie Dead Space rappresenta un buon esempio, visto che il corpo di Isaac Clarke viene smembrato e maciullato in mille modi diversi, talvolta molto creativi.

Quella che è normalmente una rarità cercata da pochi curiosi, nei videogiochi vore può diventare un elemento assai più frequente. Soprattutto quando siamo davanti a videogiochi horror ispirati a “classici” come Misao (2011) e Mad Father (2012), che si erano affermati in quella che è stata un’età dell’oro per questo genere di videogiochi su YouTube. C’è un vero e proprio filone di videogiochi vore del genere, come Kirumi di Egads, Devoured di DatStrudel e il più recente Anne di Mystery Meat Games. È persino iniziata a circolare un’etichetta di genere per giochi come questi, che sono definiti “vorror”.

Yui e Shino, due personaggi di Kirumi, in una vignetta disegnata dall’artista vore Varu

Sono videogiochi fatti con RPG Maker, con dei personaggi realizzati con Kisekae e una storia ispirata ai citati Misao, Mad Father o ad altri horror analoghi più recenti, come Ann di Rong Rong del 2021. Presentano anche frequentemente alcuni elementi di rottura della quarta parete ispirati a videogiochi creepypasta come IMSCARED (Ivan Zanotti, 2016), Sonic.exe (Adam Gavigan, 2013) o il celebre Doki Doki Literature Club! (Team Salvato, 2017). Ma quest’ultimo punto qui ci interessa meno.

Vediamo brevemente la storia di questi tre videogiochi presi come esempio.

Kirumi: La protagonista, Yui, si chiede che fine abbia fatto la sua compagna di classe Kirumi, che è scomparsa da qualche mese. Il fantasma di Kirumi si manifesta e trasporta la scuola in una dimensione alternativa. Yui deve raccogliere sei oggetti appartenenti a Kirumi per placare il suo spirito. Per farlo, deve evitare una serie di fantasmi inferociti pronti a divorarla. Al termine del gioco sono presenti due finali, in base a una scelta da compiere, a cui si aggiunge un “true ending”.

All’inizio di Kirumi, Yui ricorda l’amica scomparsa

Devoured: La protagonista, Roxanne è una studentessa che organizza un rituale a scuola durante la notte, insieme alle sue tre amiche. Il rituale, condotto a scuola durante la notte, è in grado di far avverare il desiderio di Roxanne, che è una feticista vore e vuole rendere possibile questa sua fantasia. Il rituale trasporta la scuola in un’altra dimensione. Roxanne reincontra Kendra, un’altra sua amica (e amante) che era morta tempo prima in un incidente d’auto. Ci sono quattro finali differenti, che determinano quali e quante delle sue amiche riusciranno a tornare nel mondo dei vivi.

Il rituale all’inizio di Devoured

Anne: siamo nel 1940. Anne è la figlia di una famosa scienziata e vive in una grande e antica magione. Una notte, Anne scopre che nella villa circolano fantasmi e altre oscure presenze. La ragazza cerca di raggiungere sua madre, che è chiusa dentro al seminterrato. Sono presenti cinque finali differenti, con esiti talvolta radicalmente diversi l’uno dall’altro.

L’immagine di presentazione di Anne

Già così emergono alcuni punti di contatto tra questi giochi, oltre a quelli già citati. La protagonista è sempre una giovane ragazza che si trova a dover fronteggiare orde di spiriti famelici. Elemento vore a parte, siamo davanti a un immaginario molto diffuso nei survival horror fin dai tempi di Clock Tower (1995), se non persino antecedente.

Una protagonista giovane e indifesa, chiusa in un vecchio edificio (una villa o una scuola), che deve scappare da pericolosi mostri. La differenza è che qui i mostri sono tutte presenze femminili intenzionate a mangiare la protagonista, che nella maggior parte delle situazioni ricopre quindi il ruolo della preda (sebbene ci siano anche casi in cui diventa la predatrice). Come accennato, questo è coerente con la player experience che si vuole evocare, ben diversa da Jormungandr o da Project G.L.U.T.T. (in cui si gioca nei panni di un esperimento di laboratorio, dotata di notevoli abilità nel divorare altre creature).

Tutto ciò comporta che la maggior parte delle scene vore – ovviamente di interesse per il target di riferimento – è legata a un game over, in cui la protagonista viene mangiata da un fantasma o da qualche altro avversario. Questo porta a una sorta di collezionismo dei game over, documentato anche dalla presenza di guide per tutte le morti. Kirumi e Anne hanno esplicitato questo interesse attraverso una modalità “galleria” che viene completata man mano che si soccombe ai diversi fantasmi. Un chiaro esempio di completismo.

Anne è ancor più esplicito, visto che nella pagina del gioco c’è scritto: «Evade gluttonous spirits and husks, solve puzzles and riddles, and save your mother… or hunt down all of the game over scenes because that’s the main point of these games :]».

Nella modalità “museo” di Anne è possibile rivedere ogni scena vore incontrata nel gioco. Molte di queste sono legate a dei game over

Come detto, è il genere giusto per rendere interessanti dei game over, ma questo punto apre anche una riflessione più ampia su questi videogiochi, che si trovano a muoversi su due piani differenti. Devono essere dei videogiochi vore interessanti, ma devono anche essere delle valide esperienze di gioco, per quelli che sono i canoni del genere di appartenenza. Altrimenti, che senso ha giocarci?

Ma è un buon gioco?

Può sembrare strano, forse, ma numerosi videogiochi citati fin qui sono degli esponenti perlomeno buoni (talvolta ottimi) dei loro generi di appartenenza. Andando ovviamente a confrontarli con altre produzioni indipendenti realizzate da solodev o da piccoli team.

In realtà non c’è sta stupirsi. Per prima cosa, a volte dietro a questi videogiochi ci sono professionisti del settore videoludico, che ovviamente tengono ben lontano questo mondo dal loro lavoro principale per non farsi riconoscere, ma ammettono di aver già lavorato a produzioni commerciali. Per cui hanno ovviamente delle buone capacità di base.

Ma anche quando lo sviluppatore parte da zero, mette spesso grandi energie nello studio del genere di riferimento. Non è ovviamente una costante universale: ci sono anche tanti videogiochi fatti in fretta e furia, o che semplicemente sono poco interessanti, perché magari puntano tutto sulla componente vore. Ma vedere due immagini vore non giustifica il tempo speso in un videogioco noioso, perché basta andare online per trovarne a bizzeffe. L’esperienza di gioco è interessante quando… siamo effettivamente davanti a un buon gioco.

Ci sono due macro categorie che possiamo identificare, tra i “buoni videogiochi”.

Nel primo caso, siamo davanti a un buon esponente del suo genere, che presenta anche tematiche o immaginari vore, senza però che questi ultimi siano particolarmente legati alle meccaniche di gioco.

Nel secondo caso, invece, si ragiona su come trasformare una o più meccaniche “core”, riproponendole in modo che siano legate al vore.

Un esempio della prima categoria è Pokémon Gluttony di MeltingPot. Siamo davanti a quello che è un videogioco Pokémon con tutti i crismi. Capipalestra da sconfiggere, Pokémon selvatici da catturare, IV ed EV, la mamma che ci saluta quando lasciamo il piccolo borgo di partenza, il team dei cattivi da fronteggiare, ecc.

Pokémon Gluttony
Pokémon Gluttony, mette subito in chiaro la sua natura vore, fin dalla classica introduzione di inizio gioco

È possibile approcciarlo come un tradizionale gioco Pokémon o come una delle sue mille riproposizioni fanmade. La peculiarità è che la protagonista può divorare altre persone (o essere divorata). Non c’è una particolare integrazione con le meccaniche del genere, visto che la maggior parte delle fasi vore sono scene scriptate che si verificano parlando con certi NPC. Esistono un paio di “V battles” in cui la vincitrice divora la perdente, ma anche qui non aggiungono molto alla lotta in sé.

Il classico momento in cui si sceglie il proprio starter insieme alla rivale, immancabile in ogni gioco Pokémon. E Pokémon Gluttony non fa eccezione

Di recente è anche uscito un altro gioco simile: Pokémon Escaped Emerald di Rayquazanothere. Altro titolo fanmade di Pokémon, almeno per il momento molto più legato al citazionismo di altri videogiochi (come Fallout e Halo) che al vore, relegato a pochi incontri.

In entrambi i casi, diverse persone li approcciano (almeno a giudicare dai commenti) come fossero dei tradizionali videogiochi Pokémon, mostrando il team che hanno costruito, facendo shiny hunting, ecc.

Genshin Impact
Genshin Impact è uno dei tantissimi esempi possibili in cui vai a pullare personaggi e oggetti

Un ottimo esempio della seconda categoria è invece Vessel Tactics. Qui siamo davanti a un videogioco tattico a turni, affiancato da un sistema gacha. Non è possibile spendere soldi reali e almeno per ora siamo davanti a pull infiniti. Nella versione definitiva del gioco, probabilmente si dovranno accumulare risorse in-game da spendere nei pull dei personaggi.

L’idea alla base di Vessel Tactics è per certi aspetti geniale, nel ripensare in chiave vore uno degli elementi cardine dei gacha games. Chiunque ha giocato a qualcuno di questi titoli (o ha anche solo comprato un pacchetto di figurine) sa che una caratteristica ricorrente è quella di ritrovarsi ben presto con un gran numero di doppioni. In molti gacha questi vengono utilizzati per potenziare un personaggio. Per cui la prima volta che trovi un personaggio vai a sbloccarlo e puoi utilizzarlo nel gioco. Le volte successive ottieni delle stelle (o qualsiasi altra cosa, a seconda del caso) da poter investire per rendere più forte quel personaggio.

A ben vedere, è un sistema perfetto da declinare in chiave vore. In Vessel Tactics è infatti possibile dare in pasto tutti i doppioni indesiderati ai personaggi prescelti. Questi ultimi diventeranno più forti digerendo gli altri.

Anche le battaglie offrono un ripensamento curioso degli scontri tattici a turni. Bisogna sopraffare le truppe avversarie schierando le proprie unità, valorizzando al meglio le loro specializzazioni, ma tutto il sistema di battaglia è basato sul vore. L’interazione più immediata è quella di divorare gli avversari più deboli con le proprie unità, ma i fattori da considerare sono molteplici e compongono un sistema di combattimento abbastanza complesso.

Le nostre truppe schierate in formazione compatta, prima di iniziare una missione in Vessel Tactics

Per cominciare, un’unità che ha mangiato troppo è impossibilitata a muoversi e rappresenta un facile bersaglio. Se non riesce a digerire in tempo tutte le sue prede c’è il rischio che queste ultime si liberino, lasciando la predatrice vulnerabile e circondata dai nemici. L’unità curatrice Covenant può guarire gli alleati ingerendoli e tenendoli nel suo stomaco per un certo numero di turni, ma se perde troppa energia finirà invece per digerirli. Poi ci sono unità di supporto come Cornucopia, che hanno scarse abilità combattive e non sono molto brave nel mangiare gli avversari: possono essere portate schierate come “snack” per gli alleati, da divorare nel momento del bisogno quando sono a corto di energie. Questi sono solo alcuni esempi.

Covenant
Covenant, l’unità healer di Vessel Tactics.

Un altro caso interessante è quello del citato New Pred in Town, che è sostanzialmente composto da due giochi in uno. Il che, per inciso, lo rende uno di quei progetti enormemente ambiziosi che potrebbero arenarsi lungo lo sviluppo.

Da un lato, New Pred in Town è una visual novel con percorsi multipli e scelte morali. Di questo versante si è già accennato in precedenza: la protagonista Liz è un’aspirante scrittrice che viene selezionata da una famosa autrice di romanzi insieme ad altre ragazze. E almeno una di loro verrà divorata. Al momento, la storia arriva solo al primo incontro di Liz con le altre ragazze.

Ma c’è poi l’altra parte del gioco, che è un sistema di battaglie deckbuilder. Queste sono anche presenti nella modalità storia, ma c’è una endless mode separata che è sostanzialmente un gioco a sé, al quale si stanno dedicando con costanza diversi giocatori.

Liz sta per essere mangiata da un altro personaggio nell’endless mode di New Pred in Town

Si gioca nei panni di Liz, che possiede due mazzi: uno da usare quando è la predatrice, uno per quando è la preda. Affronta una serie di battaglie in ordine casuale, contro avversari dotati di altri mazzi tematici. Per esempio c’è Lavender, studentessa di medicina, che utilizza la sua conoscenza del corpo umano per sfruttare i “punti di pressione”. Sophie invece – ragazza timida con un grande desiderio sessuale nascosto – ha numerose carte che sfruttano il piacere.

Un esempio delle carte pescate da Liz in New Pred in Town, quando deve liberarsi dallo stomaco di una predatrice

Con ogni battaglia vinta, Liz può potenziare una carta già in suo possesso e ottenerne una dell’avversaria. Per cui è possibile creare un gran numero di mazzi unici, legati ai numerosi buff e debuff presenti.

Perché l’endless mode di New Pred in Town è interessante? Perché ha creato un intero sistema di combattimento, in cui ci si alterna tra “attacco” e “difesa”, con un gran numero di fattori che rendono interessanti e strategiche le battaglie… mantenendo il tutto legato al tema vore. È quindi un altro di quei casi in cui il risultato è al tempo stesso un buon esponente del genere di appartenenza e un buon videogioco vore.

Questo è un vantaggio? La risposta non è ovvia e dipende dal punto di vista. Videogiochi come New Pred in Town sono ottimi, per la nicchia di riferimento, ma qualcuno potrebbe anche considerarlo un grande potenziale sprecato: quanti appassionati dei vari roguelite deckbuilder vorrebbero provare un gioco dove devi ruttare per togliere ossigeno alla preda nel tuo stomaco?

Sono scelte di campo, non c’è una risposta giusta o sbagliata. Lascio fuori da questo articolo tutto il discorso su sostenibilità e monetizzazione di progetti con queste caratteristiche perché ci porterebbe molto lontano, ma anche su quel fronte sono un ottimo studio di caso.

E a proposito di scelte, spesso vengono sviluppate certe tipologie di videogiochi non perché siano le più “vorizzabili”, ma perché sono quelle più approcciabili per un solodev, magari senza particolare esperienza pregressa. Per cui sono per esempio presenti numerosi videogiochi fatti con RPG Maker, trattandosi di uno strumento accessibile.

Ciò non significa che tutti i videogiochi fatti in questo modo siano la classica avventura fantasy con le battaglie a turni. Come ogni strumento, è possibile utilizzarlo in modi che escono dal seminato. Un esempio è la breve avventura Gutsaw di Egads: una rivisitazione vore del film Saw in cui bisogna superare una serie di crudeli sfide proposte da un’enigmatica figura mascherata. Sempre con RPG Maker, TumForce ha realizzato HungerTown Cop, un breve investigativo in cui una detective deve infiltrarsi in un losco club. Una curiosità di questo gioco è che ripropone la celebre “Insult Sword Fighting” di Monkey Island, con l’ovvia differenza che qui la perdente finisce nello stomaco della vincitrice.

Mettendosi a cercare, comunque, si trova un po’ di tutto. C’è per esempio l’action platformer Endeavore Dawn Seeker, in cui si gira per i pianeti dello spazio divorando slime e altre creature. O il già citato Project G.L.U.T.T., che è sempre un platform spaziale (e potrebbe avere in futuro una mappa progressivamente sbloccabile, in stile metroidvania).

E ci sarebbe anche tutto il mondo delle mod di videogiochi commerciali, che rappresenta un universo a sé stante. La più famosa è probabilmente Devourment Refactor, una mod di Skyrim che consente di mangiare gli NPC presenti nel gioco.

Insomma, in questo articolo abbiamo solo grattato la superficie.

South of Midnight: gotico del sud, folklore e trapunte

South of Midnight, in uscita in questi giorni, si presenta come un’affascinante reinterpretazione del Southern Gothic, il “gotico sudista” o “gotico del sud”. Ma che cos’è esattamente questo genere? Siamo effettivamente in grado di riconoscerlo? Ci sono altri videogiochi con cui non è stato così semplice. Proveremo qui a ripercorrere le radici culturali del genere, arrivando poi a segnalare quali sono alcuni degli elementi su cui varrebbe maggiormente la pena soffermarsi, nel ricercare le radici culturali di South of Midnight. E questi elementi potrebbero aver a che fare meno col gotico e molto più con le… trapunte! Ma procediamo con ordine.

South of Midnight

Ah, se preferisci l’ascolto alla lettura c’è anche un mio video YouTube sull’argomento di questo articolo.

Sappiamo davvero definire il gotico?

Partiamo ricordando questa cosa: il “gotico” è uno di quei termini che evocano più o meno a tutti qualcosa di vago, ma che pochi sanno definire con chiarezza. Questo perché, effettivamente, esistono diverse accezioni di “gotico”, con vari livelli di ampiezza. Per cui a seconda di chi sia il vostro interlocutore potrebbero esserci risposte molto diverse, davanti alla domanda «che cos’è il gotico?». Sono comunque abbastanza sicuro che, in linea di massima, la risposta conterrebbe vecchi castelli, storie di paura e tetre magioni disperse nelle nebbie di qualche brughiera.

Nella sua accezione più ristretta, il “gotico” comprende un numero molto limitato di opere letterarie. Parliamo dei romanzi settecenteschi come Il castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, Il vecchio barone inglese (1777) di Clara Reeve, I misteri di Udolpho (1794) e L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri (1797) di Ann Radcliffe, Il monaco (1796) di Matthew Lewis e altre opere di quel periodo.

Il castello di Otranto

Tuttavia, al di fuori di qualche storia della letteratura, il “romanzo gotico” ha dei confini un po’ più ampi di così. Vengono generalmente considerati anche i romanzi della generazione successiva, come il Frankenstein (1818) di Mary Shelley, Il vampiro (1819) di Polidori, i racconti dello scrittore E.T.A. Hoffmann (come L’uomo della sabbia) e molti altri ancora, fino ad arrivare alle soglie del Novecento con opere come Dracula(1897) di Bram Stoker.

Direi che, fino a qui, troveremmo un certo accordo tra le persone. Che Dracula e Frankenstein siano dei romanzi “gotici” non penso susciti particolare stupore. Dopo di loro… dipende molto dal punto di vista. Prendiamo per esempio Howard Phillips Lovecraft, forse il più influente scrittore horror di tutto il Novecento, che con i suoi Grandi Antichi (Cthulhu, Nyarlatothep, Azathoth, ecc.) ha diffuso l’idea dell’orrore cosmico. Chi ha letto i suoi racconti più celebri, come Il richiamo di Cthulhu, generalmente non li considera “gotici”. Non ci sono fantasmi, castelli in rovina, vampiri, eroine che svengono per la paura e manoscritti polverosi. C’è un gigante-drago-piovra giunto dallo spazio profondo che dorme sul fondo dell’oceano in una città dalla geometria non euclidea e che sognando lancia messaggi ai cultisti in giro per il mondo.

Ma non tutti la pensano così. Prendiamo il libro The Literature of Terror: A History of Gothic Fictions from 1765 to the Present Day di David Punter: in questo saggio sulla letteratura “gotica” (già il titolo è indicativo), Lovecraft viene indicato come tardo epigono del “gotico” statunitense. Invece che sottolineare l’elemento di rottura con la tradizione precedente, quando David Punter parla di Lovecraft mette in risalto tutto ciò che egli riprese dalle opere del passato. Chi ha ragione? Tutti e nessuno. In certe sue opere, Lovecraft è effettivamente molto vicino ad alcuni suoi maestri come Poe. Evito di spingermi oltre Lovecraft, quel che mi premeva sottolineare qui è questo: se già con lui abbiamo questa differenziazione legata a come etichettarlo (epigono del gotico o elemento di rottura con la tradizione), tanto più questo avviene dopo di lui.

Cos’è il gotico del sud

Arriviamo quindi al Southern Gothic, il “gotico del sud”, in cui si collocherebbe l’immaginario di South of Midnight. Se già è difficile definire con precisione cosa sia il “gotico” nel suo insieme, questa sua sottocategoria appare a tratti ancor più ingarbugliata. Provo comunque a sintetizzare quelli che sono gli elementi più frequentemente citati quando si parla di Southern Gothic:

  • Ambientazione legata al sud degli Stati Uniti. E fin qui ci siamo, nulla di inaspettato.
  • Ripugnanza fisica. Troviamo esseri deformi e freaks di varia natura. Nel gotico letterario i mostri erano molto più legati all’ambivalenza del monstrum (prodigio) latino: esseri brutti ma a loro modo anche affascinanti. Come l’originario conte Dracula: animalesco e brutto ma non privo di nobiltà. Nel Southern Gothic il prodigio si perde per strada e resta solo il mostruoso, solitamente legato a famiglie di esseri deformi, interiormente ed esteriormente repellenti.
  • Critica sociale. La prima cosa che viene in mente sono le perduranti ostilità razziali, spesso legato a una denuncia della disparità tra classi sociali che va oltre le distinzioni etniche.
  • Sessualità proibita e/o nascosta. Direi che è da sempre presente anche nel “gotico” tradizionale, in varie forme. Talvolta come tensione sessuale latente (tutto il filone dei vampiri va molto in questa direzione), talvolta come peccato da nascondere, talvolta come origine delle sopra citate mostruosità fisiche. I malvagi e deformi freaks del Southern Gothic sono spesso il frutto di rapporti incestuosi o comunque proibiti.
  • Ambientazioni decadenti. La decadenza fisica e morale – come spesso avviene – trova un corrispettivo paesaggistico e architettonico simile a quello del gotico tradizionale, con la differenza che in questo caso non troviamo castelli in rovina ma vecchie case coloniali.

È una lista ovviamente indicativa, un tentativo di razionalizzare un’etichetta sfuggente, dai confini poco definiti (come molte altre etichette legate ai generi letterari, cinematografici e videoludici, mi verrebbe da aggiungere).

Rileggendo questo elenco, continuava a venirmi in mente il nome di un videogioco, ancor prima di South of Midnight: sto parlando di Resident Evil 7: Biohazard (2017).

Resident Evil 7 Biohazard

Se ci pensiamo, ha molto senso. La serie Resident Evil ha attinto a molti elementi gotici, al fianco di altre suggestioni più contemporanee. La villa del primo Resident Evil (1996) è inequivocabilmente gotica, così come lo è l’utilizzo di diari e lettere per fornire indizi, ecc. Ancor più, Resident Evil Village (2021) è un concentrato di recuperi gotici. Non c’è quindi da stupirsi che anche Resident Evil 7 sia strettamente legato a un differente filone gotico, in questa sua veste Southern.

Per pura curiosità personale, mi sono messo a fare qualche ricerca: sono molto poche le persone che hanno parlato di Resident Evil 7 in ottica Southern Gothic, soprattutto in Italia, mentre questa etichetta si è ritrovata molto più spesso in questi ultimi giorni, applicata a South of Midnight. Credo che la spiegazione sia semplice: South of Midnight si è esplicitamente proposto come esponente videoludico di quel filone, mentre non ricordo comunicazioni in tal senso da parte di Capcom. Rimane comunque un dato alquanto curioso da sottolineare, perché vuol dire che la comunicazione ufficiale va ancora a indirizzare fortemente il modo con cui si incasellano e analizzano molti videogiochi.

Mostri leggendari in South of Midnight

Sicuramente South of Midnight è molto Southern. Sul fatto che sia pure Gothic ne sono meno sicuro, ma ciascuno può dire la sua. Come detto, il “gotico” è un concetto alquanto labile, interpretabile diversamente da varie persone.

Alcuni aspetti Southern del videogioco sono abbastanza evidenti. Altri sono più sottili e sono forse anche quelli più interessanti da indagare e approfondire. Tra quelli più evidenti c’è per esempio il recupero di diversi miti locali. Uno di questi è il leggendario alligatore Two-Toed Tom, talvolta anche noto come Red-Eye. La sua storia ha origine agli inizi del Novecento, tra Florida e Alabama, dove si vociferava di un gigantesco alligatore di quattro metri, con gli occhi rosso fuoco, che razziava le fattorie divorando umani e animali. Il suo nome deriva dal fatto che gli erano rimaste solo due dita, perché le altre erano state tranciate via da una trappola. Two-Toed Tom torna in South of Midnight, dove appare come un colossale alligatore albino, così grande da portarsi dietro un’isola sulla sua schiena.

Two-Toed Tom in South of Midnight
Two-Toed Tom in South of Midnight

È più trasformativo il recupero del Rougarou, per come viene visivamente proposto all’interno del videogioco. Tradizionalmente, il Rougarou è una sorta di licantropo. Non a caso, il suo nome deriva dal francese loup-garou, che significa proprio lupo mannaro. Nel tradizionale immaginario creolo e cajun, il Rougarou è simile all’uomo lupo europeo, ma in South of Midnight la creatura ha un aspetto differente e si presenta come una sorta di gufo mannaro. Questa è una mia ipotesi, ma mi chiedo se questa scelta del team nasca da qualche influsso del voodoo haitiano, nel cui folklore sono presenti dei mutaforma mannari capaci di volare. Vedo che online c’è chi propone invece l’Uccello del Tuono dei nativi americani come fonte di ispirazione. Può essere che il team avesse in mente quello, ma sarebbe una commistione con un immaginario molto più lontano da quello creolo, rispetto al folklore voodoo.

Il Rougarou in South of Midnight
Il Rougarou in South of Midnight

Più in generale, South of Midnight propone una bella collezione di criptidi e mostri locali. Oltre a Two-Toed Tom e al Rougarou ci sono anche il mostro della palude di Honey Island (una sorta di Bigfoot della Louisiana), l’Altamaha-ha (un mostro acquatico che ricorda la creatura di Loch Ness) e la Huggin’ Molly. Quest’ultima nasce da una storia locale dell’Alabama, che parla di una donna molto alta che si aggira di notte per stritolare gli ignari passanti, con un abbraccio letale. Come altre creature citate, anche la Huggin’ Molly è stata riproposta con un differente aspetto, in South of Midnight, dove appare come una sorta di donna ragno gigante ricoperta di tessuti.

Trapunte colorate

Proprio parlando di tessuti emerge uno dei richiami meno evidenti (ma anche più interessanti) di South of Midnight alla cultura Southern. I poteri di Hazel, la protagonista del gioco, sono infatti legati a questo mondo. Acquisendo le abilità da Tessitrice, Hazel deve aggiustare il Grande Arazzo della realtà, squarciato dai traumi subiti dalle persone. Direi che questa parte della storia si lega alla tradizione del quilting presente negli Stati Uniti del Sud.

Un quilt viene realizzato attraverso appliqué (applicazione) e trapuntatura di tessuto. E, per l’appunto, somiglia a una trapunta. Negli Stati Uniti si è diffuso in due modalità differenti. All’inizio il quilting era praticato dalle donne ricche, quando i tessuti utilizzabili venivano importati dall’Europa ed erano pertanto piuttosto costosi. Per queste donne, un quilt non aveva utilità pratica, era uno strumento di espressione creativa con cui poter realizzare qualcosa di visivamente gradevole.

Tuttavia, negli Stati Uniti del Sud, si diffuse un’altra forma di quilting, praticato da donne afroamericane e povere. In questo caso, le donne dovevano realizzare coperte per proteggersi dal gelo che penetrava all’interno delle baracche di legno in cui abitavano. Non avendo altro a disposizione, queste tessitrici utilizzavano vari pezzi di tessuto, ricavati da vecchi abiti dismessi. Nonostante ciò, le donne davano una grande impronta personale a queste loro creazioni, di cui andavano fiere e che amavano esibire, stendendole su cataste di legna o sui fili usati per asciugare il bucato. Negli ultimi anni, questa pratica del quilt è entrata anche nel mondo dell’arte “ufficiale”, dopo che le donne di Gee’s Bend (una comunità dell’Alabama) hanno esposto le loro creazioni in importanti musei statunitensi.

I quilts di Gee’s Bend

In riferimento a South of Midnight, tuttavia, direi che è soprattutto interessante ricordare casi come quello di Harriet Powers (1837-1910), una donna afroamericana della Georgia, nata schiava, che aveva realizzato dei quilt con lo scopo di raccontare eventi biblici e storici. Oggi ne rimangono solo due: il Bible Quilt del 1886 e il Pictorial Quilt del 1898. Le sue trapunte erano una sorta di sermone visivo che serviva probabilmente a trasmettere un’immagine del mondo, condensato in alcuni eventi significativi.

bible quilt
Il Bible Quilt di Harriet Powers
pictorial quilt
Il Pictorial Quilt di Harriet Powers

Proprio come il Grande Arazzo di South of Midnight, mi verrebbe da dire. Un’immagine della totalità, fatta di tessuto. I quilt di Harriet Powers non erano solo manufatti artistici. Erano anche strumenti di narrazione e di memoria culturale. Credo che South of Midnight voglia fare qualcosa di simile: va a “tessere” una trama che vuole fornire una nuova visione del folklore creolo e cajun, trasformando il videogioco stesso in un nuovo racconto visivo. Un insieme di episodi della tradizione, da mostrare e tramandare, proprio come gli episodi presenti nei quilt della Powers.

The Duskbloods: analisi del trailer… o meglio, della finestra

Il trailer di The Duskbloods, appena mostrato, mi ha suscitato subito un certo interesse e curiosità. Immagino di non essere l’unico ad averlo apprezzato.

Probabilmente apprezzerò meno il gioco. E anche qui credo di non essere l’unico.

Se, come dicono, sarà un PvPvE… non è una tipologia di gioco che mi interessa particolarmente. E leggendo i commenti in giro, molti speravano che fosse un effettivo “Souls“.

Pazienza. Piacerà ad altre persone. E magari ci sarà comunque un po’ di lore da discutere.

L’inizio del trailer è però apprezzabile e si unisce bene nel solco di FromSoftware.

Si possono dire tante cose su di esso e sono sicuro che non mancheranno le varie reaction con commento.

Da parte mia, ho voluto scrivere questo primo articolo a caldo, soffermandomi sulla finestra che si vede all’inizio del trailer di The Duskbloods.

Penso sia un dettaglio su cui si soffermeranno in pochi. Anche comprensibilmente, ciò che si vede nel resto del trailer apre a un maggior numero di speculazioni possibili.

Ma magari fornisco qualche spunto utile di riflessione.

Il trailer di The Duskbloods si apre così.

The Duskbloods

Una bella composizione. Oserei dire pittorica.

Anche quando un’immagine è statica, noi percepiamo comunque una certa direzionalità. In questo caso è quella della luce lunare che entra dalla finestra.

In termini tecnici, il vettore della luce va da sinistra a destra e segue quella che è la diagonale discendente (o disarmonica).

Duskbloods con diagonale discendente

Il fatto che il trailer si apra proprio in questo modo non è casuale, visto che si lega a tutta una serie di “ingressi” presenti nei Souls, oltre che a una certa tradizione iconografica, volendo allargare il campo.

Quel che mi interessa sottolineare qui è soprattutto il fatto che sia la prima cosa che vediamo nel trailer. E non mi stupirei se all’inizio di The Duskbloods ci fosse un inizio similare, visto che è qualcosa che già si è visto nei Souls precedenti.

La finestra è una delle tante rappresentazioni della soglia. Per questo, quando appare all’inizio di un videogioco (o di un trailer, in questo caso) non è un elemento neutrale.

Nei videogiochi sono presenti tanti archetipi legati alla soglia, che accompagnano l’ingresso nel mondo di gioco. Giusto per fare qualche esempio, potremmo trovarci davanti a un ponte (Shadow of the Colossus, Resident Evil 4, ecc.), all’uscita da un sarcofago (ICO), all’ingresso in una casa (il primo Resident Evil, Gone Home, ecc.), al passaggio dal sonno alla veglia (molti The Legend of Zelda) e altro ancora.

Il ponte in Shadow of the Colossus
Il ponte in Rsident Evil 4

Sono tutti elementi che attingono da tradizioni antiche, non a caso rappresentano una simbologia molto potente, che parte dai riti di passaggio e che ha trovato mille declinazioni narrative nel corso del tempo. In narratologia una delle soglie per eccellenza è quella che separa il “mondo ordinario” (in cui l’eroe o l’eroina conducono la loro vita prima della chiamata all’avventura) dal mondo straordinario, quello dove inizia il loro effettivo viaggio.

Nei videogiochi, tutto ciò è espanso e potenziato dal fatto che si sottolinea la separazione tra il “mondo ordinario” di noi giocatori, quindi la realtà esterna al videogioco, e il mondo narrativo in cui ci caliamo attraverso il nostro avatar. Ecco perché c’è spesso una sottolineatura visiva di questo passaggio, all’inizio di molti giochi.

Compresi i Souls. Sia nel primo Dark Souls sia in Sekiro c’è un gioco di inquadrature tra l’esterno e l’interno di uno spazio che, in quel caso, è una prigione.

In Dark Souls 2 il momento in cui si assume il controllo del proprio avatar è preceduto dal filmato con l’ingresso in un vortice acquatico. In Dark Souls 3 c’è l’uscita da una bara (simile al citato inizio di ICO). E via dicendo.

Qui in The Duskbloods siamo accompagnati all’interno del mondo di gioco dalla luce lunare.

Come dicevo prima, noi percepiamo il movimento anche nella staticità. Capiamo che la presenza di quella finestra ci invita a entrare perché “sappiamo” che la luce (della luna) entra nelle case.

E che cosa va a illuminare? Un corpo, disteso su una sedia. Ora, ho ovviamente molte poche informazioni sul gioco, ma mi verrebbe da dire che quel corpo rappresenta il nostro avatar.

Noi giocatori siamo la luce lunare che “entra” – dall’esterno all’interno – e si riversa in lui.

In fondo è questa una delle funzioni delle finestre, no? Riversare luce nello spazio interno. Lo vediamo anche in pittura, perlomeno dai tempi della Lattaia (1660) di Jan Vermeer.

Lattaia di Vermeer

Ma a questo punto potrebbe anche sorgere una – giustissima – domanda: se noi “siamo” la luce lunare che entra dalla finestra e illumina il personaggio, perché il nostro punto di vista è collocato altrove? Detto in altre parole, non dovremmo trovarci al di fuori della finestra e guardare all’interno della stanza?

Idealmente corretto, ma credo che qui si sia attivata una lunga tradizione iconografica, che si è già vista anche in altri videogiochi di FromSoftware e attinge le sue radici nel passato. Restiamo su Jan Vermeer, con la sua Ragazza (o Donna) che legge una lettera presso una finestra (1657).

ragazza che legge di Vermeer

Come scrivevano Umberto Eco e Omar Calabrese a proposito di questo quadro, «si ha la sensazione di entrare in uno spazio privato, come se la scena proposta fosse un momento di vita privata, “rubato” da un osservatore indiscreto. È come se il produttore avesse guardato dalla toppa della serratura» (Le figure del tempo, Mondadori 1987, p. 104).

Quindi, sì, noi stiamo entrando in uno spazio privato, in cui è ben visibile una finestra, e lo facciamo come osservatori indiscreti, ma il nostro punto di vista è collocato in modo da rendere visibile anche la citata finestra. Come se, appunto, stessimo guardando dalla toppa della serratura.

Esiste anche un’altra tipologia di sguardi “spioni”, quelli che penetrano direttamente nelle case passando dalle finestre, ma hanno una differente storia evolutiva. Sono gli sguardi di cui ha parlato Salvatore Silvano Nigro, all’inizio del suo saggio Il portinaio del diavolo. Occhiali e altre inquietudini (2014), ricordando tra le altre cose il celebre film La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock. Uno sguardo da spettatore cinematografico, che spia senza essere visto.

Qui siamo davanti a un rapporto diverso, in cui una delle due parti chiamate in causa è prima immobile e poi prende vita (fuor di metafora: assumiamo il controllo del personaggio e possiamo muoverlo).

Più o meno il contrario di quanto si vedeva in una xilografia di Albrecht Dürer (1538), con l’artista che fissava sulla carta (e quindi “immobilizzava”) il mobile corpo della modella davanti a lui.

Ora, in The Duskbloods siamo davanti a un trailer, per il momento. Quindi non c’è ancora nessun effettivo inizio del gioco. Può anche essere che il momento iniziale di The Duskbloods sarà molto diverso da così, ma se ci dovessi scommettere, direi che sarà comunque presente una qualche forma ben evidente di soglia.

In ogni caso, questo fattore del risveglio è anche qui ben presente.

Il punto di vista si sposta. Ora siamo vicini al corpo. Una delle sue mani penzola inerte verso il basso. Appare un’altra mano, che risale dal basso.

The Duskbloods, mani con finestra sullo sfondo

La finestra rimane presente sullo sfondo, a sottolineatura della sua importanza. Ma questa volta più che una soglia è una cornice. È come un quadro nel quadro. Sta inquadrando la luna, che come si può intuire ricoprirà un ruolo fondamentale all’interno di The Duskbloods.

Non che sia una novità, considerando i precedenti Souls. Mi sento comunque di ripetere un consiglio di lettura che ho già fornito in diverse altre occasioni: recuperate il saggio L’occulto di Colin Wilson.

Hidetaka Miyazaki stesso lo ha citato tra le sue letture ma, nonostante ciò, non ne parla quasi nessuno. Così come quasi nessuno parla del Campione eterno di Moorcock in riferimento a Elden Ring, nonostante anch’esso sia stato esplicitamente citato da Miyazaki come una delle sue fonti di ispirazione per quel gioco. Per cui, certo, va benissimo ricordare Berserk, ma tante altre fonti di Miyazaki sono rimaste quasi sempre nell’ombra.

L’occulto contiene un lungo capitolo sulla magia lunare. Aiuta a comprendere perché siano state fatte certe scelte nella storia di Ranni in Elden Ring e credo che sarà utile anche per capire meglio The Duskbloods.

Io lancio la palla, come si suol dire. Poi lascio ai “cacciatori di lore” divertirsi nel realizzarci sopra tutta una serie di contenuti. Magari ricordatevi di citare questo articolo, se il suggerimento che ho dato sarà effettivamente utile per farvi creare qualche contenuto interessante.

Per chi volesse approfondire il discorso, in passato avevo scritto questo: La cornice del cominciamento: calarsi nell’avatar in Dark Souls e Sekiro, che potete leggere qui.

In generale, se spulciate nell’elenco delle mie pubblicazioni trovate un po’ di materiale sui Souls.

Pagina 1 di 11

Powered by WordPress & Tema di Anders Norén